Giacomo Galeazzi - Città del Vaticano
«Il sequestro di Emanuela Orlandi fu il messaggio cifrato di una setta al Vaticano». Nel giallo della cittadina vaticana scomparsa 29 anni fa davanti alla centralissima basilica romana di Sant’Apollinare, spunta un esposto presentato a inizio luglio da uno studioso di antiche confraternite ad alto tasso di libertinaggio, abituate a «frammischiarsi tra uomini» e a praticare «l’eresia della carne». Talmente scandalose che nel ‘500 finivano sul rogo, commenta Fabrizio Peronaci, autore con Pietro Orlandi di «Mia sorella Emanuela» (edizioni Anordest).
Dopo che per anni gli investigatori hanno puntato sulla banda della Magliana, al capo della procura della capitale , Giuseppe Pignatone, è arrivato un esposto che impone una rilettura dell’affaire. E che, per la prima volta, sale di livello: rimanda ai presunti mandanti. Timbro: San Giorgio a Cremano. Mittente: Antonio Goglia, 43 anni, laureato in Scienze politiche e funzionario al Comune di Napoli. Oggetto: «Determinazione della natura dei mandanti del rapimento Orlandi». La lettera, dopo 29 anni, fa luce su alcune «stranezze» dei sequestratori, i quali i primi tempi si rivolsero ai frati di Santa Francesca romana, ai Fori.
Come nel «Codice da Vinci», il plot è intricato assai. E, per dipanarlo, occorre tornare ai giorni seguenti il 22 giugno 1983, quando la figlia del messo papale svanisce nel nulla all’uscita della scuola di musica. Ecco la sequenza: il 3 luglio Wojtyla lancia il primo appello dalla finestra dell’Angelus; il 5 in Vaticano telefona un personaggio, ribattezzato l’Amerikano (il Sisde lo riterrà «inserito nell’ambiente ecclesiastico e perfetto conoscitore del latino»), che rivendica il rapimento chiedendo lo «scambio» con Alì Agca «entro il 20 luglio»; nelle ore successive lo stesso mister X si premura di chiarire un equivoco, confermando che l’ultimatum scade il 20 e non, come scritto dai giornali, «tra venti giorni»; infine, allo scadere, si fa vivo al centralino di Santa Francesca: «Parlo con un frate? La sorte di Emanuela è appesa a un filo...». Bene, è proprio questo l’arcano. Perché il 20 luglio? Cosa rivela questa data? Nessuno, in tre decenni, lo ha considerato un indizio illuminante. E invece sì, una spiegazione potrebbe esserci.
Basta analizzare quanto accadrà un mese e mezzo dopo... «Procuratore, sarò breve - premette lo studioso - Nel tardo pomeriggio del 4 settembre 1983 l’Amerikano telefona all’Ansa per dire che “nelle vicinanze di Santa Francesca romana il Pontefice celebra la Via Crucis” e, a domanda del giornalista, chiarisce che “la scelta della basilica è inerente il giorno della scadenza del 20 luglio”» Parole in libertà, parvero agli inquirenti. No, incalza Goglia. «Il nome della basilica e l’insistente riferimento all’ultimatum sono indicazioni cifrate dirette a certi ambienti vaticani».
Attenzione. È qui che il giallo si avvierebbe a soluzione: il 20 luglio, per gli ecclesiastici dediti al «libertinaggio», altro non sarebbe che una sorta di giorno della memoria. «Nella seconda metà del XVI secolo presso la chiesa di San Giovanni in porta Latina - spiega la missiva - con la complicità di alcuni frati fu costituito un circolo segreto di uomini che manifestavano legami di affetto omosessuale e consacravano vincoli matrimoniali. La confraternita fu sciolta il 20 luglio 1578, dopo l’arresto di 11 persone di sesso maschile. Il processo del tribunale criminale del governatore si concluse con otto condanne per i reati di sodomia e profanazione dell’istituto matrimoniale e la pena inflitta fu l’impiccagione, eseguita il 13 agosto a ponte Sant’Angelo, con successivo rogo dei corpi».
Possibile? I rapitori di Emanuela Orlandi proprio a quel 20 luglio alludevano? «Ritengo - deduce il detective “storiografico” - che l’Amerikano intendesse ricordare al pontefice questo aneddoto per firmare l’azione di sequestro». È troppo? Ricostruzione esorbitante? Ma, se è così, come mai non chiamarono direttamente la chiesa della setta? «Perché doveva essere, per l’appunto, un messaggio in codice - argomenta Goglia - Se l’Amerikano avesse telefonato a San Giovanni in Porta Latina, sarebbe bastata una ricerca storica per capire la matrice del sequestro. La possibilità di esercitare un ricatto, così, sarebbe venuta meno».
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