Il decreto legislativo 30 dicembre 1992 n 504, varato dal Governo Amato I, stabiliva alcune esenzioni per le proprietà della Chiesa. La questione su quale tipo di edifici e proprietà dovessero essere esentati e quali no ha portato negli anni a diversi procedimenti giudiziari, fino a quando la norma viene in parte bocciata dalla Consulta nel 2004. La Cassazione stabilisce, con due sentenze[senza fonte], che per quello che riguarda il diritto all’esenzione Ici "tanto gli enti ecclesiastici che quelli con fini di istruzione o di beneficenza sono esentati dall'imposta, limitatamente agli immobili direttamente utilizzati per lo svolgimento delle loro attività istituzionali [...] non lo sono, invece, per gli immobili destinati ad altro.", specificando che "un ente ecclesiastico può svolgere liberamente - nel rispetto delle leggi dello Stato - anche un'attività di carattere commerciale, ma non per questo si modifica la natura dell'attività stessa, e, soprattutto, le norme applicabili al suo svolgimento rimangono - anche agli effetti tributari - quelle previste per le attività commerciali". L'esenzione viene reintrodotta con il decreto legge del 17 agosto 2005, in cui il Governo Berlusconi III cambia la vecchia normativa, includendo gli immobili destinati ad attività commerciali tra quelli compresi nel diritto all’esenzione. Secondo alcuni commentatori ciò è avvenuto a fronte del rischio da parte degli enti ecclesiastici di dover corrispondere ai comuni gli importi dell'Ici sugli immobili destinati ad attività commerciali non pagati nel quinquennio 2000-2005 (quelli relativi agli anni dal 1993 al 1999 sono prescritti).[senza fonte]
Alle polemiche sul provvedimento, la Cei, per bocca del suo ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, risponde con un comunicato stampa in cui denuncia le "gravi e fuorvianti inesattezze" di tali critiche, dato che "l’esenzione da tale imposta è già definita per legge fin dal 1992 e il recente decreto legge non fa che confermarla, esplicitando gli ambiti di applicazione". In realtà, nel decreto del 1992 venivano chiaramente elencati gli immobili esenti dall’imposta, quelli destinati esclusivamente allo svolgimento di attività:
- assistenziali,
- previdenziali,
- sanitarie,
- didattiche,
- ricettive,
- culturali,
- ricreative,
- sportive;
l’elenco non comprende dunque le attività a fini di lucro, vale a dire l'oggetto delle polemiche.
L'emanazione del decreto suscita critiche da parte dei membri dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani, a causa dei mancati introiti che questa esenzione comporterebbe, oltre al rischio di richiesta di rimborsi da parte i quelle curie che dal 1993 avevano invece pagato l'ICI per le loro attività commerciali. Secondo l'ANCI la norma avrebbe causato un minor introito annuo di 200-300 milioni di euro.. Il contenuto del decreto, decaduto per mancata conversione in legge nei tempi utili, viene ripreso nel decreto fiscale collegato alla legge finanziaria 2006, in cui si estende l’esenzione anche alle organizzazioni no-profit e alle Chiese con cui lo Stato ha stretto un’intesa: Nel 2006 il Governo Prodi II modifica nuovamente la legislazione, come promesso da alcune delle forze politiche che lo sostengono durante la precedente campagna elettorale, le quali chiedevano la rimozione dell'esenzione dagli edifici sede di attività principalmente commerciali; tuttavia un emendamento alla legge, votato da esponenti di entrambi gli schieramenti, permette di mantenere l'esenzione per le sedi di attività che abbiano fini "non esclusivamente commerciali". Con la modifica della legislazione la commissione per la concorrenza dell'Unione Europea interrompe le indagini che stava compiendo sull'esenzione, per riaprirle però l'anno seguente . Solo il 10% circa delle proprietà della Chiesa paga l'imposta ed il mancato gettito annuale per i comuni è stimato (2007) in 400 milioni di euro.
Un ulteriore tentativo di escludere le proprietà della Chiesa dall'esenzione dell'ICI, sostenuto nel novembre 2007 dal Partito socialista, in sede di discussione della legge finanziaria 2008, viene bloccato in sentato, con 12 senatori a favore, ben 240 contrari (tutti i senatori presenti della Casa delle Libertà e parte di quelli de L'Unione) oltre a 48 astenuti (principalmente i rappresentanti dei partiti della cosiddetta sinistra radicale). Secondo alcuni pareri[senza fonte], il provvedimento presenta aspetti paradossali dal punto di vista del diritto canonico, dato che modifica di fatto il regime tributario definito dal Concordato, ma in una modalità non prevista dal Concordato stesso, che infatti non può costituzionalmente essere modificato se non tramite accordo tra le parti (Stato italiano e Chiesa Cattolica) oppure con procedimento di revisione costituzionale. Per approfondire, si confrontino l'art. 7 della Costituzione italiana ("...Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale") con l'art. 7 del Concordato ("...le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime).
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