Questo miracolo non arreca ai pagani nulla di nuovo, e ad essi non può apparire scandaloso.
(Origene, Cels. 2,16)
Ci sono teologi, che ancor oggi ritengono questa narrazione l'evento meglio attestato della storia del mondo.
(Il teologo Hirsch, Die Auferstehungsgeschichten, 4 sg.)
Divinità che muoiono e che risorgono dopo tre giorni
Durante tutta l'antichità il portento della resurrezione, come il miracolo della resuscitazione dei morti, fu fenomeno assai diffuso, giacché il mito del dio che soffre, muore e risorge appartenne ai tratti caratteristici della maggior parte delle religioni misteriche (Leipoldt). A quanto pare, lo stesso evangelista Matteo non vide nella resurrezione di Gesù alcunché di nuovo; egli credette che i guardiani del sepolcro l'avrebbero smentita... in cambio di una buona mancia (Mt. 28, 11 sgg.).
Prima di Cristo resuscitarono dai morti il babilonese Tammuz (sumer, Dumu-zi = figlio fedele), il cui culto si era diffuso fino a Gerusalemme; il siriano Adone ('adon = signore), l'egiziano Osiride, il tracio Dioniso e altri. Molti di questi dèi dovettero subire sofferenze e martìri, alcuni morirono sulla croce; talvolta la loro morte ebbe carattere espiatorio, e alla loro resurrezione venne sempre collegata fin dai tempi più antichi la speranza nell'immortalità dell'uomo.
Come il Gesù dei Sinottici, questi dèi morirono spesso prematuramente: Adone, il cui culto Saffo cantò intorno al 600 a.C., e che gli ebrei conobbero già nell'VIII secolo; Attis e Sabazio perirono in età giovanile, e tutti non di rado resuscitarono il terzo giorno o dopo tre giorni, come Attis, Osiride e assai probabilmente anche Adone. Esistette anche una leggenda ampiamente diffusa intorno a una divinità dell'Asia Minore protettrice della crescita della vegetazione, la quale resuscitava il terzo giorno dopo la sua deposizione nel sepolcro. Molti secoli prima del Cristianesimo, anche a Babilonia si credette in una resurrezione dopo tre giorni: «Per tre giorni riposa nel cielo. Forse che riposa nel cielo per quattro giorni? Mai riposa un quarto giorno! » (Cit. da Zeher, 95).
Ma i parallelismi fra le celebrazioni di resurrezioni pagane e il dramma cultuale del Cristianesimo non si fermano qui: l'oscillazione degli Evangeli fra terzo e quarto giorno (dopo tre giorni!) 1 ha la sua ragion d'essere evidente nel fatto che la resurrezione di Osiride si verificava il terzo giorno, quella di Attis, invece, il quarto giorno dopo la morte.
Appaiono sorprendenti talune analogie fra il culto cristiano e la resurrezione di Bel-Marduk, la principale divinità di Babilonia, creatore del mondo, dio della saggezza, dell'arte medica e dell'esorcismo, redentore inviato dal Padre, suscitatore dei defunti, signore dei signori, re dei re e buon pastore. Come il Cristo della Bibbia, Bel-Marduk fu arrestato, processato, condannato a morte, fustigato e giustiziato insieme a un malfattore, mentre un altro delinquente venne lasciato libero. Una donna asciugò il sangue del dio, fluito da una ferita inferta da un colpo di lancia 2. Infine anche Marduk discese nell'inferno a liberarne i prigionieri; e la sua tomba fu ben nota agli antichi (M. Brückner, 14).
Le narrazioni evangeliche della Resurrezione
Tutti i resoconti hanno un marcato carattere leggendario... Il contributo storico agli eventi pasquali è scarso e discutibile.
(Il teologo Grass, 85 sg.)
Contraddizioni su contraddizioni
(Il teologo Heiler, Der Katholizismus, 44)
La teologia storico-critica non si stanca di evidenziare il fatto che nelle notizie intorno alla Resurrezione di Gesù le contraddizioni si accumulano in misura sconosciuta a qualsiasi altro passo neotestamentario, tanto che ne disconosce tout court il valore storico e, richiamandosi a Paolo, individua in Pietro il primo testimone dell'evento 3.
Tuttavia, la prima apparizione di Gesù a Pietro, accennata da Paolo, non si trova né in Marco né in Matteo, mentre Luca si limita a menzionarla di sfuggita, non senza qualche incongruenza (Lc. 24, 34. Cfr. però in proposito 24, 12). La registrazione paolina del fatto viene ritenuta più attendibile dai teologi, dal momento che egli è l'informatore più antico e si guarda da inutili abbellimenti leggendari: per lui è importante soltanto che il miracolo si sia verificato; delle cinque cristofanie enumerate - accanto a quella sperimentata personalmente - Paolo non indica né il quando, né il dove e nemmeno il come (1 Cor. 15, 5 sgg.).
Al contrario, i Vangeli denotano - come osserva in modo calzante il teologo Lohmeyer 4 - una ricca e colorita molteplicità di svariatissimi particolari. Il teologo von Campenhausen esprime tale constatazione con le parole seguenti:
«Fra tutte le notizie a noi pervenute, non se ne trovano due che concordino fra loro» (Campenhausen, 19).
Questo studioso ritiene, inoltre, che la versione dei fatti fornita da Matteo rigurgiti di incongruenze e di assurdità. Tale spiacevole impressione sarebbe attenuata notevolmente, se si decidesse di ignorare completamente i racconti più recenti di Matteo, Luca e Giovanni, attenendosi esclusivamente al più antico Marco -naturalmente con la dovuta cautela. Infatti, anche quest'ultimo presenterebbe non una testimonianza diretta, bensì un resoconto denso di incongruenze, di amplificazioni e di tratti leggendari; in ogni caso il suo racconto non sarebbe affatto «meramente fantasioso» (ibid., 26; 19 sg. e 37). Secondo questo teologo, dunque, si tratterebbe della notizia cristiana più antica e, per così dire, più attendibile della Resurrezione di Gesù; in modo non difforme, ma spesso più negativo, si pronuncia anche tutta la teologia critica 5.
Ma Goethe scrive negli Epigrammi Veneziani:
«Il sepolcro è spalancato: che grandioso miracolo, il Signore è risorto!
Chi ci crede! Furfanti, lo avete già portato via!».
La storia del sepolcro vuoto
La tesi della sottrazione del cadavere è, com'è noto, assai antica 6, e ritorna spesso anche nel Medioevo, ma appare altrettanto inverosimile quanto l'ipotesi della morte apparente o la teoria del trasloco o dello scambio della salma. La storia del sepolcro vuoto è nata probabilmente senza avere alle spalle un imbroglio, che si verificò, in verità, già con l'invenzione stessa di questa storia.
Lasceremo da parte le contraddizioni presenti nelle narrazioni della morte di Gesù, che un apologeta cristiano si sforza di giustificare con la profonda incertezza e la confusione 7 determinate negli informatori dai catastrofici eventi naturali ad essa connessi. Almeno nei Vangeli i riferimenti all'inumazione di Gesù ancora concordano: Giuseppe di Arimatea, un prestigioso funzionario pubblico e discepolo di Gesù, avrebbe portato via e seppellito il Crocifisso: in verità, però, gli Atti degli Apostoli sostengono una tesi diversa, quando raccontano che la deposizione dalla croce e l'inumazione fu opera degli Ebrei 8.
La Resurrezione vera e propria non viene raccontata dai Vangeli: la prova del miracolo fu, prima di tutto, il sepolcro vuoto; il che viene contestato spesso e volentieri, dal momento che i racconti che se ne occupano pullulano di incongruenze. Ma tutti i resoconti evangelici della Resurrezione hanno inizio proprio con questa constatazione, che possedeva evidentemente agli occhi dei narratori un'importanza determinante. Secondo le concezioni ebraiche, una resurrezione poteva considerarsi provata soltanto nel caso che il corpo medesimo si fosse levato dalla tomba (così Hauck, 192).
È istruttivo il modo in cui i cristiani andarono via via rielaborando la storia del sepolcro vuoto, per renderla più plausibile.
Paolo, l'autore cristiano più antico, non ne sa ancora nulla, o perlomeno non ne fa cenno, per quanto almeno un'allusione al sepolcro vuoto sarebbe stata del tutto ovvia, ad esempio nel capitolo XV della Prima Lettera ai Corinzi. Inoltre, sembra che nulla sapesse neppure della storiella delle donne e dell'angelo seduto sulla tomba.
Per ovviare all'accusa di imbroglio, Matteo si inventò la storia della guardia posta a custodia del sepolcro (Mt. 27, 62 sgg.; 28, 11 sgg.), di cui manca ogni traccia anche in Marco, secondo il quale le donne incontrano un angelo che siede silenzioso presso l'avello vuoto. In Matteo l'angelo discende dal cielo e le guardie, assenti in Marco, cadono a terra come folgorate (Cfr. Mc. 16, 1 sgg. con Mt. 28, 1 sgg.).
Gli scritti cristiani più recenti indicano persino il nome del comandante di questa guardia: alcuni lo chiamano Longius, altri Petronius. Sulla tomba sono stati impressi «sette sigilli», e il popolo accorre dalla città e dalle località vicine e si accerta de visu della chiusura del loculo 9. Inoltre la pietra tombale è tanto pesante che tutte le sentinelle, comandante compreso, non solo, ma anche gli anziani e gli scribi, e tutti quanti i presenti, devono darsi un bel da fare per smuoverla.
Ma fortunatamente e tempestivamente essa rotola via da sola dal suo posto. La guardia pagana e gli anziani ebrei diventano anch'essi testimoni della Resurrezione. Nel Vangelo di Pietro (Ev. Petr. 39 sgg.) Gesù salta fuori dal sepolcro addirittura con la croce, e alla domanda proveniente dal cielo se abbia adempiuto alla sua missione nell'Inferno risponde con uno squillante «Sì».
E infine il servo del Sommo Sacerdote riceve personalmente da Gesù il sudario di lino, e il centurione della guardia diventa un martire cristiano (Joh. Chrysost., hom. in Mc. 15, 39). Era necessario rappresentare l'evento in maniera sempre più plastica agli occhi dei fedeli. Non è fuori luogo rammentare che gli scritti «apocrifi» in origine venivano usati nell'opera di proselitismo e godevano della medesima autorità di quelli «autentici», i cui autori, per altro, non si erano comportati diversamente.
Come gli evangelisti canonici più recenti perfezionano il resoconto sulla Resurrezione compilato da Marco
In Marco, la mattina della domenica di Pasqua le donne si recano con unguenti profumati al sepolcro per «l'unzione». Questa decisione presa dopo tre giorni, quando, date le condizioni climatiche orientali, non si poteva non tener conto del fatto che il processo di putrefazione fosse già iniziato, era inverosimile. Perciò Matteo la espunge e manda le donne solo «a dare uno sguardo alla tomba», senza più parlare di unzione (Cfr. Mc. 16, 1 con Mt. 28, 1). Matteo s'accorge anche di un'altra incongruenza di Marco, secondo il quale il seppellimento è ormai cosa fatta da parte di Giuseppe di Arimatea già alla fine del XV capitolo.
Nel Vangelo di Giovanni quegli, insieme a Nicodemo, utilizza per l'unzione di Gesù una quantità di spezie del peso di «ben cento libbre» (Jh. 19, 39). Ora, la decisione delle donne di procedere all'imbalsamazione, raccontata da Marco al principio del XVI capitolo, non era soltanto poco credibile, ma anche completamente fuori posto (Cfr. Mc. 15, 46 sgg. con 16, 1 sgg.). Per altro, in Marco le donne acquistano gli unguenti il giorno successivo al sabato, in Luca se li procurano il giorno prima (Cfr. Mc. 16, 1 con Lc. 23, 56). In Marco si recano presso il sepolcro tre donne, in Matteo solo due, variante suggerita probabilmente dalla storia della resurrezione di Osiride, nella quale una versione parla di tre persone giunte alla sua tomba, come poi in Marco, un'altra invece solo di due donne, come poi in Matteo. Anche in questa narrazione, esattamente, come nella Bibbia, le donne recano con sé dei balsami 10.
Inoltre, in Marco le donne, con una leggerezza davvero assai poco credibile, si ricordano solo cammin facendo che avrebbero avuto bisogno d'aiuto per rovesciare la pietra tombale, poiché avevano già osservato «attentamente» il sepolcro sigillato (Cfr. Mc. 15, 47); così Matteo e Luca non fanno più menzione della loro preoccupazione per le dimensioni enormi della pietra sepolcrale (Cfr. Mc. 16, 1 sgg. con Mt. 28, 1 sg. e Lc. 24, 1 sg.).
E infine, sulle donne e sulla scoperta del sepolcro vuoto, Marco così scrive: «di questo non dissero nulla a nessuno» (Mc. 16, 8), con questo volendo semplicemente spiegare perché la storia fosse rimasta sconosciuta per tanto tempo (nemmeno Paolo ne fu al corrente). Ma il silenzio delle donne, sostenuto da Marco, non solo era totalmente inverosimile da un punto di vista psicologico, ma si trovava in aperto contrasto con quanto affermato appena un versetto prima, quando l'angelo raccomanda alle donne di portare ai discepoli la notizia dell'avvenuta Resurrezione! (Cfr. Mc. 16, 7 con 16, 8).
Perciò Matteo fornisce un'altra versione, assolutamente opposta, nella quale le donne si precipitano immediatamente «a portare la notizia ai discepoli» (Cfr. Mc. 16, 8 con Mt. 28, 8). In Luca, poi, esse recano la notizia «a tutti gli altri» (Lc. 24, 9. Cfr. anche 24, 22 sgg.), e nel quarto Vangelo, il più tardo, Giovanni opera ulteriori aggiustamenti 11. Insomma, l'inverosimile e incredibile silenzio delle donne riferito da Marco viene eliminato da tutti gli Evangelisti successivi, che in luogo di tremori, fughe e terrori descrivono l'immediata diffusione della lieta novella.
Un miracolo a sé è costituito poi dalla storia dell'Angelo: in Marco le donne lo incontrano nel sepolcro, in Matteo davanti, sopra la pietra rovesciata, in Luca, in un primo momento, non è né dentro né sopra, ma subito ne compaiono due, che si materializzano improvvisamente accanto alle donne. Anche nel Quarto Vangelo gli Angeli sono due, ma se ne stanno di già seduti in attesa sul sepolcro 12.
Osserviamo di passaggio che gli angeli cristiani derivano dall'Ebraismo, e che la Chiesa per lungo tempo condannò anche questa forma di culto. Il Sinodo di Laodicea (intorno al 360) lo dichiarò «pratica superstiziosa», e in effetti la credenza in una schiera di angeli è solo la deformazione di un antico politeismo. Anche «l'angelo custode», già presente in Matteo 13, invenzione toccante che accompagna ogni bambino cattolico, era già ben noto agli Assiri e ai Babilonesi, che raffiguravano i loro Angeli esattamente come faranno poi i cristiani. Nell'Ebraismo furono forniti di ali solo dietro influsso pagano, se è vero che nel Primo libro di Mosè essi avevano ancora bisogno di una scala per i loro viaggi fra cielo e terra 14.
Ma la Chiesa stessa, in verità, non sempre riusciva a capacitarsi fra le innumerevoli classi di Angeli: alcuni autori, ad esempio, vedevano negli Angeli del popolo creature miserabili, che terrorizzano le genti, inducendole al peccato con falsi insegnamenti; altri, al contrario, affermavano che col loro aiuto sarebbe stata portata a termine l'edificazione della Chiesa. Ma forse non si tratta nemmeno di una contraddizione!
Quando nacque la storia del sepolcro vuoto, esisteva già l'opera di Caritone Cherea e Calliroe, romanzo ampiamente diffuso e letto, che ha influenzato notevolmente gli autori posteriori, ed evidentemente anche gli Evangelisti. Nel III libro Cherea si reca di buon mattino presso la tomba di Calliroe, al colmo della disperazione, ma ecco che la pietra tombale giace rovesciata al suolo e l'ingresso è libero. Spaventato, Cherea non osa entrare; altri accorrono, anch'essi pieni di paura, finché uno si decide ad entrare e vede il miracolo: la defunta non c'è, il sepolcro è vuoto. Allora anche Cherea si fa avanti, e constata che l'evento incredibile è davvero accaduto.
A chi e dove apparve il Signore?
E dunque anche la tomba di Gesù era vuota. Un angelo secondo Marco e Matteo, due angeli secondo Luca e Giovanni hanno annunciato la sua Resurrezione. Ma costituiva parte integrante delle leggende intorno agli inviati divini il fatto che essi, gli immortali, dopo la dipartita sarebbero prima o poi ricomparsi. Il Cinico Peregrinus Proteus, dopo essere stato bruciato sul rogo, apparve a un filosofo, il quale non solo dichiarò d'aver veduto il risorto bianco vestito e col viso radioso, ma giurò anche d'essere stato testimone della sua ascesa al cielo 15. Anche Apollonio di Tiana, risorto, si mostrò a due dei suoi discepoli, inducendoli a toccargli la mano perché si convincessero ch'era vivo. E un Pretore romano sostenne sotto giuramento d'aver visto la figura del defunto Augusto in atto di ascendere in cielo (Trede, 38).
Secondo un'antica concezione ebraica, un fatto poteva ritenersi dimostrato solo dietro testimonianza di almeno due o tre testimoni, e poiché tale opinione, attestata già nel V Libro di Mosè, era ancora vigente nella primitiva comunità cristiana e ricorre più volte nel N.T. 16, anche Cristo doveva apparire a più persone per essere «realmente» risorto.
Ordunque, egli, secondo alcune notizie, apparve dapprima a Maria Maddalena, secondo altre a Giacomo e secondo altri ancora a Nicodemo o addirittura alla madre. E già i Vangeli su questo punto si contraddicono in maniera grossolana: in base alla conclusione inautentica di Marco e di Giovanni il risorto appare dapprima a Maria Maddalena (Mc. 16, 9; Jh. 20, 11 sgg.); secondo Matteo si mostra contemporaneamente alle due Marie (Mt. 28, 1 sgg.); e secondo Luca ai due discepoli di Emmaus (Lc. 24, 1 sgg. 24, 13 sgg.).
Il teatro di codeste apparizioni secondo Marco e Matteo fu la Galilea, secondo Luca Gerusalemme 17. Taluni esperti eliminano questo contrasto, estesosi poi anche ai Vangeli Apocrifi, inventandosi apposta una località di Gerusalemme chiamata Galilea: all'uopo nel 1896 vide la luce un libro intitolato Galilea sul Monte degli Olivi, nel 1910 un altro con l'analogo titolo Galilea presso Gerusalemme, tentativi che finirono perlopiù nell'indifferenza generale. Altri studiosi spiegarono poi l'apparizione di Cristo in Galilea come un vecchio abbaglio di Marco, il che avrebbe tolto di mezzo la funesta contraddizione, se altri dotti non avessero a loro volta parlato di un indubbio, anzi addirittura di un premeditato errore di Luca.
Certo, Gesù avrebbe potuto apparire sia qui che là, e in effetti il Quarto Vangelo parla di cristofanie sia in Gerusalemme che in Galilea (Jh. 20, 19 sgg. e 21) e il Diatessaron di Taziano, una sorta di concordanza evangelica composta intorno al 170 col fine esplicito, come vedremo più avanti, di appianare le incongruenze dei Vangeli canonici, dice la stessa cosa. Ma al Quarto Vangelo non si può attribuire nessun valore storiografico, a parte il fatto che l'indagine storico-critica ha provato che il capitolo 21, proprio quello contenente il racconto dell'apparizione del Risorto in Galilea, non è altro che una tarda interpolazione.
Inoltre, né Marco né Matteo parlano di apparizioni in Gerusalemme; né Luca parla di apparizioni in Galilea. Negli Atti degli Apostoli, anch'essi attribuiti a Luca, il Risorto ordina espressamente ai discepoli «di non allontanarsi da Gerusalemme, e di attendere là il compimento della promessa del Padre», per poi, dopo una breve allocuzione, ascendere immediatamente in cielo (Atti, 1, 1 sgg.). E anche nel Vangelo di Luca egli comanda: «E voi restate qui in città, finché non sarete armati della forza che discende dall'alto» (Lc. 24, 49). Pertanto Luca sa solo di apparizioni del Risorto a Gerusalemme o nei dintorni, nulla, invece, di apparizioni in Galilea. Al contrario! Egli le esclude addirittura proprio con l'ordine imposto ai discepoli sia negli Atti che nel Vangelo di non abbandonare Gerusalemme fino all'accoglimento dello Spirito nella festività della Pentecoste.
Il numero dei testimoni
Sono del pari un po' strane le asserzioni differenti di Pietro e di Paolo circa il numero dei testimoni della Resurrezione. Paolo parla di sei epifanie, cinque davanti agli Apostoli e una davanti a «più di cinquecento fratelli tutti insieme» (1 Cor. 15, 5 sgg.), aggiungendo anche che la maggior parte di questi cinquecento testimoni «è ancora in vita». Stranamente, però, un'apparizione tanto imponente non viene citata da nessun'altra parte. E inoltre l'informazione di Paolo mal si concilia con la dichiarazione di Pietro, secondo la quale Dio avrebbe consentito a Gesù «di apparire non a tutto il popolo, ma a noi, testimoni scelti già in precedenza da Dio, a noi che dopo la sua Resurrezione dai morti abbiamo mangiato e bevuto con lui» (Atti, 10, 40 sg.). Ma dopo l'allontanamento di Giuda si trattava, come è noto, solo degli undici Apostoli! (Mc. 16,14).
A questo proposito non sarà inopportuno toccare, almeno di sfuggita, il problema del numero, quale si presenta nella Bibbia. In relazione alla Resurrezione ci troviamo continuamente di fronte al numero 8: Gesù risorge l'ottavo giorno dopo l'inizio della settimana di Passione; i Vangeli contengono in tutto 8 notizie sulla sua Resurrezione e sulle sue apparizioni e citano 16 ( = 2 x 8) nomi di testimoni oculari. Paolo amplifica il loro numero a 512 ( = 8 x 8 x 8); anche il numero delle resurrezioni nominate nella Bibbia (eccettuata quella di Gesù) è ancora 8. Allo stesso modo il nome numerico del Risorto (Gesù) suona nella scrittura originaria 888; anche tutti i suoi appellativi (Cristo, Signore, Salvatore, Messia) nella scrittura greca contengono il fattore 8; e con questi accenni non è affatto esaurito il ruolo qui svolto da questo numero, poiché la Bibbia contiene elucubrazioni numeriche ancor più sorprendenti. Ma è serio rintracciare in simili artifizi la manifestazione del buon Dio, dedito a esercizi aritmetici?
Paolo sentì, quindi, il bisogno di ampliare fino a cinquecento la cerchia dei testimoni della Resurrezione; tuttavia ci si chiede perché mai il Signore apparve solo ai Discepoli, e non anche ai suoi accusatori e giudici, davanti ai quali avrebbe potuto fondare ben più efficacemente la fede nella sua Resurrezione; anzi, «da allora in poi» avrebbero dovuto vederlo trascorrere per le nubi del cielo (Mt. 26, 64. Cfr. anche Mc. 14, 62). Di questo serio problema si occupò già Celso, che pose Origene in notevole imbarazzo: il grande teologo seppe ribattere all'avversario pagano soltanto il fatto che il Risorto si limitò ad apparire a poche persone, perché gli altri non avrebbero saputo sopportare la vista della sua immagine trasfigurata (Orig., Cels. 2, 63, 64).
continua
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Note
1 Cfr. Lc. 9, 22; 18, 33; Mt. 20, 19; 1 Cor. 15, 4 con Mc. 8, 31; 9, 31; 10, 34.
2 Lelpoldt, Sterbende und auferstehende Götter, 9. Cfr. anche Sterk, II, 412 sg. W. Bauer, Das Johannesevangelium, 219 sg. 11. Lessing, 99.
3 Cfr. W. Bauer, Das Leben Jesu, 261 sgg. Campenhausen, Der Ablauf der Osterereignisse, 8 sgg. Schneider, Gestegeschichte, I, 82 sg. Hirsch, Die Auferstehungsgeschichten, 3. Grass, 94 sgg; 106 sg.
4 Lohmeyer, Galiläa u. Jerusalem, 5.
5 Cfr. B. Knopf, Einführung, 290. Bornkamm, Jesus von Nazareth, 167. Harnack, Mission u. Austreitung, 1, 124. Werner, Der protestantische Weg, I, 130. Bultmann, Theologie des N. T, 46. Idem, Synoptische Tradition, 260. Dibelius, Formgeschichte, 191. Heiler, Der Katholizismus, 44. Grass, 85 sg.
6 Mt. 28, 13 sg. Cfr. anche Tert., spect. 30. Forse alluso in Jh. 20, 15.
7 Secondo Geffcken, Das Christentum im Kampf, 98 sg.
8 Cfr. Mc. 15, 42 sgg.; Mt. 27, 57 sgg.; Lc. 23, 50 sgg. con Atti 13, 27 sgg.
9 Acta Pilati A 16, 7. Ev. Petr. 31 e 33. In proposito Hennecke, 78. Michaelis, Die apokryphen Schriften zum N. T. 49. Per quanto segue soprattutto Grass, 23 sgg. Campenhausen, Der Ablauf der Osterereignisse, 27 sgg.
10 Schneider, Geistesgeschichte, 1, 85. Cfr. inoltre Mc. 16, 1 con Mt. 28, 1.
11 Jh. 20, 2; 20, 18. Sulla comunicazione delle donne, per altro assolutamente problematica, cfr. Bultmann, Synoptische Tradition, 296. Klostermann, Das Markusevangelium, 168. Bousset, Kyrios Christos, 63 sgg.
12 Cfr. Mc. 16, 5 con Mt. 28, 2; Lc. 24, 4; Jh. 20, 12.
13 Mt. 18, 10. Cfr. anche Orig., Cels. 8, 34. In Num. Hom. 11, 4.
14 1 Mosè; 28, 12. Bertholet, 128.
15 Lucian., morte Per., 40. Cfr. anche Orig., Cels. 2, 55.
16 Mt. 19, 15 sg.; Jh. 8, 17; 2 Cor. 13, 1; 1 Tim. 5, 19 e passim. Inoltre, 5 Mos. 19, 15.
17 Cfr. Mc. 16, 1 sgg. specie 16, 7. Inoltre 14, 28; Mt. 28, 1 sgg. specie 28, 16 con Lc. 24, 1 sgg.
Il corpo trasfigurato del Signore
Codesto Risorto è corporeo, e appare tuttavia incorporeo, perché questa sua corporeità si mostra quale corporeità d'altro genere rispetto a quella caratterizzata dalla carne e dal sangue; ciononostante non si tratta di incorporeità, bensì di autentica, effettiva corporeità.
(Il teologo Vittel, Die Auferstehung Jesu, 150)
La figura del Risorto costituì un bel problema non soltanto per i moderni teologi (come dimostra la profondità concettuale della frase citata), ma anche, evidentemente, per gli Evangelisti stessi.
Il Signore non poteva risorgere col corpo umano e innalzarsi, quindi, allo Spirito-Padre, ma d'altra parte non gli era consentito d'essere un vacuo fantasma: ci volevano le prove! Per cui la sua figura nel Vangelo giovanneo è già un miracolo a sé stante: da un lato è tanto solida che l'incredulo Tommaso poté ficcare le dita nelle sue ferite; dall'altro è così etereo da penetrare attraverso porte sigillate ed esclamare «Non toccarmi!» 1 davanti a una esterrefatta Maria Maddalena, la quale ha scambiato per il giardiniere il trasfigurato figlio di Dio.
Come è noto, il grandioso evento (per altro neppur citato in molti scritti neotestamentari 2 secondo Marco e Giovanni si verificò in primo luogo nella testa di questa donna (Mc. 16, 9; Jh. 20, 11 sgg.). A giudizio di Renan, nessuno più di Maria Maddalena ha contribuito alla nascita del Cristianesimo: non bisogna dimenticare in proposito che Gesù ne aveva scacciato «sette spiriti maligni» (Lc. 8, 2; Mc. 16, 9), vale a dire, in altri termini, che era isterica fino alla follia. E già nel II secolo Celso, alquanto scettico, si domandava: «Ma chi vi ha assistito? Una donna mezzo pazza!» (Orig., cels. 2, 55). E anche a Porfirio a ai suoi discepoli il ruolo delle donne, e specialmente quello di Maria Maddalena, fino a qualche tempo prima posseduta dai demoni, apparve sospetto.
Nel Vangelo di Luca, poi, Cristo sottolinea di bel nuovo la propria fisicità: non più il Noli me tangere!, con cui aveva respinto Maria Maddalena, bensì l'esortazione chiara e tonda ai Discepoli «Palpatemi e guardatemi!», per ribadire espressamente ch'era fatto di carne e d'ossa. Non solo, ma si tien su anche con un buon arrosto di pesce 3, benché, come Ignazio ci rassicura, «congiunto spiritualmente col Padre». Ci sono teologi conservatori, che vorrebbero appoggiare apertamente la «storicità» di questa scena, constatando che allora a Gerusalemme i pesci si potevano procurare facilmente!
Nel XXI capitolo del Quarto Vangelo, aggiunto in un secondo tempo, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, il Trasfigurato comincia già da lontano a gridare: «Ehi, ragazzi, non avete per caso un po' di pesce?». E il Signore ne ebbe, e tuttavia ordinò «portatene degli altri»; dopo di che Pietro gli presentò 153 pesci, né uno in più né uno in meno, e belli grossi per sovrapprezzo 4.
E infine, la corporeità «autentica ed effettiva» del Risorto viene rafforzata dalla notizia che «secondo tradizioni attendibili» all'atto dell'Ascensione si lasciò dietro le divine impronte dei piedi com'era avvenuto - per altro - già a Eracle e a Dioniso. Gerolamo, onorato dalla Chiesa col titolo un po' raro di «Dottore della Chiesa», ci assicura che era possibile vederle ancora ai suoi tempi, nel V secolo. Il Venerabile Beda, il «Dottore del Medioevo», attesta la presenza delle medesime persino nell'VIII secolo. Tutto questo, poi, nonostante i cristiani da quel suolo avessero in fretta e furia portato via enormi quantità di terriccio.
L'ipotesi della visione
L'ipotesi che le apparizioni del Risorto siano state un'esperienza soggettiva, un evento puramente spirituale nelle anime dei discepoli, è molto antica, perché è già presente nella cristianità primitiva, anche in ambiti sicuramente ecclesiastici. Dopo David Friedrich Strauß tale supposizione viene sostenuta nella sua versione moderna da molti teologi 5, i quali affermano che non fu il Risorto a originare la credenza nella Resurrezione, bensì la ben più antica credenza nella Resurrezione a generare le visioni del Risorto. In effetti, il N.T. contiene numerose attestazioni della disposizione visionaria dei Discepoli (ancor oggi è noto il fenomeno delle visioni di massa, ed è un fatto che l'uomo antico non sempre era in grado di distinguere fra il reale e l'immaginario e che persino le visioni oniriche avevano per loro il valore di una realtà effettuale e oggettiva).
I fautori dell'ipotesi della visione, inoltre, possono contare su un «testimone della corona» del calibro di Paolo, che nella già citata paradosis della Prima Lettera ai Corinzi, la più antica notizia cristiana dell'evento, parla della Resurrezione di Cristo nel terzo giorno, dell'apparizione a Pietro, ai Dodici Apostoli e ai Cinquecento fratelli, quindi così prosegue:
«Poi è apparso a Giacomo, quindi a tutti gli Apostoli. Infine è apparso a me, ultimo di tutti, come a un aborto» (1 Cor. 15, 3 sgg.).
Dunque, Paolo annovera se stesso, senza una precisa distinzione, fra gli altri testimoni: egli parla delle apparizioni a Pietro, a Giacomo e agli Apostoli con le stesse parole, con le quali descrive l'apparizione da lui avuta sulla via di Damasco, equiparando l'esperienza personale, di natura sicuramente visionaria, a tutte le altre esperienze della Resurrezione. Gli Apostoli, dunque, secondo Paolo, videro il Signore solo in modo visionario, come era accaduto a lui stesso (1 Cor. 15, 3 sgg.).
La seguente osservazione di Maurice Goguel mostra quanto appaiano pressoché penose agli occhi della teologia critica le notizie evangeliche della Resurrezione di Gesù e dell'Ascensione, tanto che sarebbe forse meglio che vi sorvolassero:
«Miracoli di tal fatta rivestono un'importanza fondamentale per la storia della Cristianesimo, ma non ne hanno alcuna per la storia di Gesù» (Goguel, 127).
L'ipotesi della morte apparente
È sostenuta soprattutto dai medici, anche se venne difesa da teologi del XVIII secolo come K.F. Bahrdt e K.H. Venturini, e non mancano neppure oggi coloro che la ritengono verisimile.
Giuseppe Flavio ci informa che chi veniva affisso alla croce poteva sopravvivere dopo la deposizione. Non mancava una vasta esperienza in proposito, giacché la morte sulla croce, secondo Cicerone «la più crudele e la più obbrobriosa», era frequente nell'antichità e in uso già in Persia 6, da dove Alessandro Magno la diffuse nel suo vasto impero, e a partire dal II secolo a.C. fu introdotta anche in Palestina. Nell'88 a.C. Alessandro Janneo, re degli Asmonei, in occasione di un banchetto celebrativo d'una sua vittoria, fece crocifiggere in presenza delle sue amanti 800 Farisei ribelli, ordinando che i figli e le mogli venissero uccisi ai piedi delle croci (Joseph., ant. jud. 13, 14, 2). Nel 71 a.C. sulla Via Latina, fra Roma e Capua, M. Licinio Crasso fece crocifiggere seimila schiavi.
I crocifissi spesso sopravvivevano interi giorni, contorcendosi nelle convulsioni della sofferenza, abbandonati alla fame e alla sete, al sole e alla pioggia, alle mosche e ai rapaci, torturati poi dai dolori orribili causati dai chiodi che ne trapassavano i polsi. I fautori dell'ipotesi della morte apparente si appellano soprattutto al fatto che la morte sulla croce sopravveniva non per dissanguamento ma per esaurimento fisico, che Gesù, a causa del Sabato, restò appeso alla croce soltanto sei ore (dalle nove del mattino fino alle tre del pomeriggio), che nessun Evangelista dice esplicitamente che Gesù fosse morto e, infine, che il colpo di lancia viene menzionato solo da Giovanni, e non dev'essere stato mortale.
«... disceso all'Inferno»
Qui fu fornito un tema fatto a bella posta per influenzare le masse.
(Joseph Kroll, 58)
I cristiani del I secolo non si posero ancora il problema di che cosa fece Gesù dopo la morte sulla croce. Nessuno degli Evangelisti vi fa riferimento 7, e tace in proposito la maggior parte dei restanti autori neotestamentari. Solo un'Epistola falsamente attribuita a Pietro - costituisce la prova biblica fondamentale del dogma - accenna di sfuggita alla permanenza del Signore nell'Inferno per alcuni giorni, per procedere all'esecuzione di ciò che fino ad allora si era trascurato di fare a pro di tanti, vale a dire alla salvazione delle loro anime 8.
Il descensus ad inferos, oltre che dalla Chiesa ufficiale insegnato esclusivamente da Marcione (Secondo Iren., adv. haer. 27, 3), nacque, dunque, nel II secolo, e fu a partire dal IV secolo che i Sinodi si preoccuparono di inserire nella professione apostolica di fede la postilla «discese all'Inferno»!
Al contrario, l'idea del dio che discende nel mondo sotterraneo era corrente da molto tempo nella tradizione religiosa pagana, nella quale svolgeva un ruolo decisivo per la determinazione della fede nell'immortalità (la incontriamo, ad esempio, nei miti egizi, babilonesi ed ellenistici).
Nell'antico Egitto, Rê e Osiride combatterono le forze dell'oltretomba, a Babilonia si conosceva un viaggio infernale di Istar già nel III millennio, ed esiste un testo del XIV secolo a.C. che racconta il viaggio sotterraneo del dio Nergal, il quale prende d'assalto il mondo ctonio, sconfiggendone gli eserciti e suscitando un terremoto, come accadrà in occasione nell'analoga catabasi di Cristo (Kroll, 220).
Per la discesa del dio Marduk è attestato il motivo dell'apertura violenta del carcere sotterraneo, e sono descritti i prigionieri che guardano al loro Salvatore pieni di gioiosa speranza. Per gli studiosi le coincidenze col viaggio sotterraneo di Cristo sono talmente vistose, che avanzano come sicura l'ipotesi di un intimo legame fra loro (ibid., cit. 238; 4 sg; 183 sgg; 205 sgg.). E anche la discesa infernale di Eracle, descritta da Seneca, mira a sconfiggere le potenze del mondo sotterraneo, a infrangere le leggi dei demoni: Eracle intende recare la luce ai pallidi defunti e liberarli dal carcere, non diversamente da quanto farà Cristo.
Ma dopo aver adattato anche a lui tale mito, era necessario trovarne le prove nel V.T., che verso la metà del II secolo era ancora l'unica scrittura sacra autorevole dei cristiani; e siccome non ve n'era traccia, si provvide a crearla, falsificando un nuovo versetto di Geremia, che dissero essere stato cassato dal testo per mano degli ebrei 9. Il dottore della Chiesa Ireneo fa riferimento a questa falsificazione cristiana non meno di sei volte 10.
Il viaggio infernale di Cristo divenne ben presto un tema popolare nel mondo cristiano, anche se in luogo del motivo edificante subentrò via via il carattere pugnace della lotta col demonio, che fu il modo di esplicitare il mondo concettuale dei battaglieri pagani, che ci si proponeva di convertire. Il racconto subì ulteriori arricchimenti esornativi e assunse anche caratteristiche drammatiche, e non pochi autori cristiani inviarono m quel luogo spaventoso anche gli Apostoli in veste di predicatori e di battezzatori 11.
Ma, a dir la verità, nei Vangeli manca qualsiasi traccia di tutto ciò, anzi il dogma della discesa agli inferi è contraddetto da Luca, secondo il quale Gesù trascorse in Paradiso già i primi giorni dopo la sua morte. In effetti, al «buon» ladrone egli non si perita di dire: «In verità ti dico: oggi sarai con me in Paradiso», frase che presuppone l'attesa di Gesù di un'ascensione in cielo direttamente dalla croce 12; ed è questa la ragione per cui, onde evitare la contraddizione con altre parole di Gesù, questo brano venne talvolta cancellato e dichiarato un falso operato dagli eretici (ibid.).
Nella comunità primitiva l'idea di una Resurrezione e di un'Ascensione al cielo direttamente dalla croce svolse un ruolo essenziale. Ma poiché la cristianità esigeva prove più concrete dell'evento, l'idea dell'Ascensione dalla croce ha ceduto a poco a poco alla credenza nella Resurrezione dal sepolcro (ibid., passim, soprattutto 215 sgg.).
Ci limitiamo qui ad accennare al fatto che molti Padri della Chiesa sostennero espressamente che Gesù sconfisse gli spiriti maligni proprio durante la sua Ascensione al cielo 13. Infatti, nel Cristianesimo primitivo molti fedeli credevano che l'Inferno non si trovasse nel mondo sotterraneo, bensì in quello celeste; e la fede in un inferno ultraterreno si trova persino nel N.T., se è vero che anche la Lettera agli Efesini lo localizza nell'etere 14. Il che, fra l'altro, rendeva più agevole agli abitanti del Paradiso la piacevole contemplazione delle sofferenze dei peccatori e degli anticristiani, un'esigenza mostruosa tipicamente cristiana, come avremo modo di mostrare almeno en passant, tanto più che il problema dell'inferno agita gli animi ancora in pieno secolo XX.
«Non resta altro che l'Inferno»
E dunque esiste forse l'Inferno? Chi si pone questa domanda? Chi sono coloro che negano l'Inferno? Guardateli bene! L'Inferno non esiste: questo afferma la maggior parte dei professori. Parlano così i viveurs, fra arrosti di capriolo e champagne.
(Wetzel, L'aureo libro dei Cattolici, 1914)
Un proverbio spagnolo tradotto da Schopenhauer recita: «Dietro la croce c'è il diavolo», e tutta la storia della Chiesa sta lì a dimostrare che per essa la vendetta è ben più dolce dell'amore pel prossimo; una vendetta nel tempo e nell'eternità. Già il N.T. esorta alla rivalsa contro l'umanità infedele con le parole: «Restituitele quello che ha dato agli altri, e datele il doppio secondo le sue opere» (Apc. 18, 6). Simili pii auguri ritornano spesso nella letteratura neotestamentaria 15.
Dalla produzione cristiana successiva si evince addirittura l'impressione che la vera e propria felicitas in regno caelorum, il culmine dell'eterna beatitudine, sia la contemplazione dei dannati.
La Seconda Epistola di Clemente assicura ai cristiani che potranno vedere gli infedeli e gli atei
«nel fuoco inestinguibile fra i terribili dolori delle torture; e il loro tarlo non perirà, e il fuoco non si spegnerà, ed essi saranno ludibrio della carne».
Nella Apocalisse di Pietro, ritenuta scrittura sacra dalla maggior parte del Cristianesimo occidentale ancora intorno al 200, nella quale significativamente il cielo fa una fuggevole apparizione, la rappresentazione inebriata dei tormenti infernali sembra non aver fine: «si brucia, si tortura, si arrostisce». L'Inferno si trova «immediatamente di fronte al cielo», evidentemente per facilitare la contemplazione dei dannati, che sembra l'attività più proficua degli abitanti del Paradiso.
«Ve n'erano appesi alle lingue: si trattava di coloro che diffamarono la via della giustizia, e sotto di loro ardeva un fuoco che li tormentava. E c'era un vasto lago colmo di melma ardente, nella quale si trovavano gli uomini che distorsero la giustizia, e gli angeli li incalzavano con le loro torture. E c'erano inoltre anche donne appese per i capelli, proprio sopra quella fanghiglia brulicante: erano coloro che si erano imbellettate per l'adulterio; e quelli che con esse avevano consumato tale turpe commercio erano appesi per i piedi, colla testa conficcata in quella mota, e dicevano: "Non credemmo che un giorno saremmo giunti in questo luogo"» (Apc. Petr. 6 sgg.).
Anche il Padre della Chiesa Tertulliano si compiace, come dice egli stesso, di guardare con occhio insaziabile la bollitura dei suoi avversari:
«Quale spettacolo avvincente ci sarà per noi?! Quale sarà l'oggetto della mia meraviglia, del mio riso?! Dove sarà il luogo della mia gioia, del mio divertimento!?... Allora i tragedi otterranno un ascolto più attento, poiché urleranno di più nella loro sventura; allora bisognerà guardare gli attori, e vedere come sono diventati più molli e più morbidi ad opera dei fuoco ...», ecc. ecc. (Tert., spect. 30. Cfr. anche patient. 8; 10).
Questi intendimenti amichevoli, che si lasciano dietro di gran lunga le punizioni minacciate dalla XIX e XXII Sura del Corano, adornano numerose opere cristiane delle origini 16. Anche Cipriano promette ai fedeli la contemplazione dei tormenti dei persecutori d'una volta a guisa di arricchimento della felicità celeste, e anche Lattanzio addolcisce la beatitudine eterna con la vista della miseria dei dannati (Lact., div. inst. 7, 26, 7): forse proprio per questo la Chiesa assicura loro la Resurrezione della carne, e in ogni caso i Padri della Chiesa dichiarano esplicitamente che i peccatori hanno bisogno di un corpo immortale per essere in grado di sentire i castighi infernali.
Quando i cristiani non furono più perseguitati, ma cominciarono a loro volta a perseguitare gli altri, la descrizione dei dolori oltremondani degli avversari si attenuò, ma ciononostante il teologo ufficiale della Chiesa Tommaso d'Aquino, anche se con entusiasmo meno intenso («mite come un agnello», ironizza Nietzsche) attesta:
«Affinché la beatitudine sia più piacevole per i santi (magis complaceat) e costoro ringrazino ancor più Dio per questo, essi devono contemplare perfettamente (perfecte) le punizioni dei dannati» 17.
Naturalmente la Chiesa pone continuamente l'Inferno anche davanti agli occhi dei propri seguaci. E così, ad esempio, uno degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, il quale riesce a unire in sé - secondo uno dei suoi figli purtroppo perduti - umana grandezza e «azioni proprie di un mentecatto» (Tondi, Die Jesuiten, 190), e precisamente il Quinto, consiste in una profonda riflessione sull'Inferno. (Ancor oggi ogni Gesuita deve prendere parte a codesti Esercizi due volte nella vita per quaranta giorni e ogni anno per otto giorni).
Un primo esercizio preliminare deve rendere visibile all'occhio dell'immaginazione la lunghezza, la vastità e la profondità dell'Inferno; un secondo esercizio preliminare prescrive «un sentimento vivissimo dei castighi inflitti ai dannati»; quindi in un esercizio in cinque punti ogni singolo senso deve suggerire l'immagine dell'Inferno: l'occhio «quello smisurato fuoco ardente e le anime quasi come dentro corpi infuocati»; l'orecchio «il pianto, l'ululato, le strida, le bestemmie contro Cristo nostro Signore e tutti i Santi»; il naso «il fumo, lo zolfo, le pozze di putridume dell'inferno»; il gusto «le amarezze, le lacrime, la tristezza, il rimorso»; il tatto deve «provare quegli ardori infuocati che avvolgono le anime e le bruciano». Inoltre, colui che compie tali esercizi deve «richiamare alla memoria tutte le anime che si trovano nell'Inferno» e gioire perché essi (ancora) non ne fan parte. Questo quinto esercizio è raccomandato da Ignazio «un'ora prima di cena» 18.
Ora, un simile quadro dell'Inferno incontra un pudico atteggiamento scettico anche fra i credenti, tant'è che molti ecclesiastici vorrebbero volentieri farla finita con tali concezioni «barocche», perché «dandone una descrizione evocativa tanto crudele e precisa, quasi ne fossimo stati già ospiti, non lo rendiamo affatto più credibile» (Winklhofer, 72 sgg.). I Gesuiti oggi desidererebbero estinguere quel fuoco infernale, che il fondatore e primo generale dell'ordine pretendeva fosse incessantemente oggetto di rappresentazione realistica addirittura attraverso evocazioni tattili.
A parere dei missionari à la page tutti «gli ingredienti antichi, medievali e barocchi, che hanno conferito al dogma cristiano dell'Inferno una veste adeguata per quei tempi, ma non sono in grado di abbellirlo», devono essere abbandonati! Tuttavia, dev'essere consentito di
«trasformare le concezioni sull'aldilà suscettibili di mutamento, adeguandole ai cambiamenti della concezione del mondo, come è pur avvenuto con ogni evidenza nel corso dei secoli».
Il nostro informatore, che ci ha pur or ora offerto il capitolo Basta con le concezioni barocche!, evoca l'Inferno in maniera consona ai tempi:
«L'Inferno è la morte... È una disposizione interiore piena di radicale disperazione e di odio metafisico, né potrebbe essere altrimenti».
La colpa terrena, dopo che sono caduti i limiti del corpo,
«si sarebbe impadronita senza più alcun ostacolo, come un incendio nella steppa, della più intima sostanza dell'anima, così che essa è ancor più malvagia... Persiste in eterna contemplazione di sé. Niente impedisce già più lo sguardo dell'ormai definitivo peccatore mortale, per così dire diretto verso il puro Nulla, del peccatore che ha perduto l'involucro del corpo; non esistono più valori alternativi, come sulla terra ...».
Alla fine il nostro cattolico scomoda anche un romanziere, e ci scodella quindi il capitolo Il fuoco eterno, benché considerato, diversamente dall'insegnamento dell'Aquinate, «una dolorosa punizione supplementare» più che altro simbolica.
Ma in ogni epoca ci sono stati cristiani che non si sono lasciati sadicamente inebriare dai tormenti infernali, che anzi se ne sentivano continuamente turbati e hanno finito col negare tout court l'esistenza di un Inferno eterno, anche richiamandosi all'autorità della Bibbia. Infatti, è vero che il N.T. insegna, seppure, come al solito, in modo estremamente contraddittorio, l'eternità del castigo infernale, «il fuoco inestinguibile» (Mc. 9, 43 sgg. Cfr. anche Mt. 25, 46; 18, 8), ma è altrettanto vero che afferma che tutte le creature, persino il diavolo, prima o poi, torneranno a Dio 19.
A questi concetti neotestamentari della totalità della salvazione, dell'universalità della riconciliazione si ricollega soprattutto la celebre dottrina origeniana dell'Apokatastasis, della ricostituzione di tutte le cose in Dio, che è lo scopo ultimo della storia 20, tesi sostenuta in forme un po' diverse anche dai Padri della Chiesa Gregorio di Nazianzio e Gregorio di Nissa, dai più accesi seguaci della Riforma, da molti Pietisti, Gottfried Arnold, Jung-Stilling, Schleiermacher e, infine, da tutta una serie di teologi moderni.
Il nobile Origene, uno dei pochi cristiani, ai quali il pensiero che gli uomini dovessero soffrire in eterno appariva non solo inaccettabile, ma anche inconciliabile con la Buona Novella di Gesù e con l'amore e l'onnipotenza di Dio, proprio a causa del rifiuto dell'eternità dell'Inferno venne condannato dalla Chiesa: e in effetti, dove sarebbe andata a finire senza la fede in un Inferno perpetuo!? Proprio per questo anche la Chiesa protestante, per così dire fin dal primo giorno della sua esistenza, condannò gli Anabattisti nell'articolo 17 della Confessione di Augsburg del 1530 «perché insegnano che i diavoli e i dannati non subiranno una punizione eterna».
L'ascesa in Paradiso
Secondo Luca, l'Ascensione di Cristo avvenne il giorno della Resurrezione, nella sera della domenica di Pasqua, secondo gli Atti, invece, quaranta giorni dopo 21. Per evitare la contraddizione, molti testi biblici (soprattutto siriaci e antico-latini) hanno fatto finire la notizia di Luca con le parole «e mentre li benediceva si separò da loro», passando sotto silenzio la frase che seguiva «e venne elevato al cielo» (Lc. 24, 51).
Ma anche secondo altri documenti protocristiani Cristo ascende in Paradiso il giorno stesso della Resurrezione. La Lettera di Barnaba ammette:
«Perciò trascorriamo in gioia anche il primo giorno (della settimana), nel quale anche Gesù resuscitò dai morti e, dopo essersi manifestato, ascese al cielo».
Sulla base del racconto di Luca, l'Ascensione di Cristo avvenne in Betania, secondo gli Atti dal Monte degli Olivi: una evidente contraddizione 22.
Il Vangelo di Matteo non solo ignora l'Ascensione, ma secondo taluni esperti addirittura la esclude.
Nel Vangelo di Marco, poi, l'Ascensione si trova in un'appendice stiracchiata (Mc. 16, 9-20), che manca nei manoscritti più antichi, e viene respinta come spuria 23 anche da studiosi conservatori. Persino un esperto cattolico (Wickenhauser) ammette che quell'appendice conclusiva non deriva dall'Evangelista, ciononostante anche quel testo sarebbe «parte integrante della Sacra Scrittura», cosa di cui nessuno, per altro, dubita. Il testo originario di Marco arriva solo fino a 16, 8, quel che seguiva nel testo originale venne cassato dalla Chiesa proprio perché contraddiceva in modo troppo stridente le narrazioni dell'Ascensione contenute negli altri Vangeli. La conclusione che noi oggi possediamo fu interpolata già nel II secolo.
Ma del resto parecchie ascensioni al cielo erano ben note non solo ai pagani, presso i quali divinità come Cibele, Eracle, Attis, Mitra e sovrani come Romolo e Cesare o poeti come Omero erano scomparsi tanto misteriosamente; anche Henoch, Mosè ed Elia erano saliti in cielo ben prima di Gesù 24. Certo, il suo rapimento era stato «profetizzato» nel V.T., ad es. in Salmi 23, 9: «Sollevate, porte, i vostri battenti; alzatevi, voi porte eterne, in modo che entri il re della gloria!»; oppure in Salmi 18, 7: «Il suo sorgere è da un'estremità del cielo, e il suo ritorno si estende fino all'altra estremità del cielo».
Ingegnosi Padri della Chiesa come Giustino, Ireneo e Tertulliano evinsero da questi passi la profezia dell'Ascensione del Cristo; e con ciò cogliamo l'occasione per passare alla trattazione della cosiddetta Prova delle Profezie.
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Note
1 Cfr. Jh. 20, 24 sgg. con Jh. 20, 15 sgg. Lei lo riconosce solo quando la chiama per nome, e si discute se Maria di Magdala abbia riconosciuto Gesù dal suono della voce - così Schlatter, Der Evangelist Johannes, 1930 I.c. - oppure per un modo particolare di pronunciare il suo nome, come sostiene Heitmüller, Die Schriften des N. Ts., I.
2 2 Thess. Tit. Philem. 3 Jh. 2 Petr. Jak. Jud.
3 Ign., Smyrn. 3, 3. Lc. 24, 39 sgg. Cfr. anche Atti, 10, 41.
4 Jh. 21, 4 sgg. Sul numero di 153 cfr. ad es. W. Bauer, Das Johannesevangelium, 230 sg.
5 Werner, Die entstehung, 75. Idem, Glaube u. Aberglaube, 180. Idem, Der Einflußpaulinischer Theologie, 17. Idem, Der protenstantische Weg, 129 sg. Bousset, Kyrios Christos, 17. Bultmann, Offenbarung u. Heilsgeschehen, 66 sg. Grundmann, Geschichte Jesu Christi, 20, anche nota 99.
6 Cic., Verr. 5, 64. Cfr. su quanto segue Klausner, Jesus v. Nazareth, 484 sg. Stauffer, Jerusalem u. Rom, 123 sgg. Zehren, 78 sgg.
7 Mt. 12, 40 citato talvolta come unica eccezione, può altrettanto bene, anzi ancor meglio, riferirsi al sepolcro.
8 1 Petr. 3, 19 sg.; 4, 6. Cfr. Justin., Tryph. 72, 4. Ev. Petr. 41 sg. Ep. apost. 27. Per il tutto vedi Kroll.
9 Justin., Tryph. 72,4. In proposito Werner, Die Entstehung, 255 sg.
10 Iren., adv. haer. 3, 20, 4; 4, 22, 1; 4, 27, 2; 4, 33, 1; 4, 33, 12; 5, 31, l.
11 Hermas, sim. 9, 16, 5 sgg. Cfr. anche Clem. Al., strom. 2, 9, 44; 6, 6, 48.
12 Così Bertram, Die Himmelfahrt Jesu, 202.
13 Justin., Tryph. 36, 5 sg. Iren., epid. 83. Cfr. anche già 1 Cor. 2, 6 sgg.; Kol. 2, 15. Inoltre: Tert., idol. 5; Orig., Comm. 5, 10 sull'ep. ai Rom.
14 Eph. 4, 7 sgg.; 2, 14 sgg. In proposito Schlier, Christus u. die Kirche, specie i primi due capp. L'ascensione in cielo del Redentore e La divina muraglia.
15 Cfr., ad es., Apc. 16, 5 sgg.; 18, 20; Lc. 9, 52 sgg.
16 Cfr., ad es., L'Ep. di Giuda V, 5 sgg.; 2 Petr. 2, 1 sgg.; Apc. Petr. 22, 27, 28.
17 La frase di Tommaso, Summa Theologica III Suppl. q. 94 a. 1, viene citata non nel senso letterale da Nietzsche, Zur Genealogie der Moral 1, 15.
18 Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, ed. F, Weinhandl, 1921, 24 sgg.
19 Atti 3, 21. Cfr. anche 1 Kol. 1, 19 sg.; 1 Tim. 2, 4; Mt. 18, 14; 2 Petr. 3, 9; Jh. 12, 47; 3, 17. Sul tutto, Schuhmacher, Nigg, Buch der Ketzer, 56 sgg.
20 Orig. princ. 1, 6, 1 sgg.; 3, 1, 14; 3, 6, 1 sgg.
21 Cfr. Lc. 24, 36 sgg., specie 24, 51 (anche 23, 43) con Atti 1, 1 sgg. In proposito Lohmeyer, Galiläa u. Jerusalem, 99. Grundmann, Das Problem des hellenistischen Christentums, 46 sg. Werner, Die Entstehung, 99. Bertram, Die Himmelfahrt Jesu, 204 sg. Benz, 119. Trillhaas, 67 sg.
22 Cfr. Lc. 24, 50 con Atti, 1, 12. Inoltre Conzelmann, Mitte der Zeit, 79 sg.
23 Hauck, 195. Jülicher, 309 sgg.
24 1 Mos. 5, 24. Hebr. 11, 5; 2Re 2, 1 sgg.
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