Il «conte rosso» per antonomasia è sempre stato Luchino Visconti. L’idea che ora possa esserlo Massimo D’ Alema è di sicura impronta marxiana: la storia, ammoniva il gran barbuto di Treviri, quando si ripete è sempre una farsa. Il Fatto pubblica delle foto del conte Max, allora ministro degli Esteri, infracchettato e superdecorato in un’udienza papale del 2006:
più che il diavolo e l’ acqua santa è una specie di Miseria e nobiltà: al posto del principe di Casador c’è un N.H. con i baffi, l’ Ordine Cileno, la Legion d’Onore di Francia e, fresco di nomina pontificia, lo stellone di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Piano sul petto. Voleva il titolo più alto, lui. Quello di conte. Ma non sapeva che il Vaticano lo riserva ai capi di Stato.
Così si è dovuto «rassegnare» a essere solo un vice. Ma, a conti fatti, vice conte val bene una messa. Si ignora se avesse ai piedi le famose e costose scarpe di cuoio fatte a mano scoperte qualche anno prima presso un calzolaio calabrese, e se sul «Tevere più largo» dell’intesa fra Stato e Chiesa ci fosse arrivato in barca a vela. Si può escludere, visto il rigido protocollo e l’assenza dello chef Vissani, che ci sia stato il tempo per una risottata catto-comunista nella foresteria vaticana.
Abbiamo convissuto per anni con l’idea che i «compagni» fossero persone serie, pericolose proprio perché convinte delle loro idee. Eravamo giovani e quindi eravamo ingenui: non avevamo capito che sotto il vestito rosso non c’era niente, bastava invitarli a pranzo o portarli dal sarto e la rivoluzione sarebbe finita lì.
Da anni ormai la sinistra è un susseguirsi di yacht, merchant bank dove non si parla inglese, vigneti e abiti griffati. Ci siamo abituati ai vellutini di Fausto Bertinotti e ai foulard di Achille Occhetto, agli sloop di 60 piedi di SuperMax, alle piccole Atene di Capalbio (o era Cetona? Ah, saperlo), alle tenute agricole nelle Langhe care a Cesare Pavese, o nell’ubertosa Umbria da sempre cuore caldo della sinistra di lotta (ma dai) e di governo (ma sì). Ci siamo anche abituati all’idea di leader del comunismo che fu, pronti a giurare che loro, comunisti, non lo erano mai stati (Veltroni docet). Perché sorprenderci ora se li vediamo inseguire un titolo nobiliare? È vero: già Giovanni Giolitti sosteneva che un sigaro e una croce di cavaliere non si negavano a nessuno, ma quella era l’Italietta liberal-conservatrice, mica il «Paese normale» della retorica progressista...
Diceva Chateaubriand che l’aristocrazia passava per tre età successive: «L’età delle qualità superiori, l’età dei privilegi, l’età delle vanità. Uscita dalla prima, degenera nella seconda e si spegne nell’ultima». La sinistra è divenuta aristocrazia senza averne i meriti e accontentandosi dei difetti: perpetua i privilegi, è superbamente vanitosa. Da tempo non rappresenta più nulla, ma ha imparato a farlo con sussiego e prosopopea: la «diversità», la «questione morale», la «parte sana» eccetera, eccetera.
È una sinistra con la puzza sotto il naso, il mutuo cospicuo in banca e il contratto da rinnovare in Rai, o presso qualche ente, o presso qualche grande editore, sempre indignata e sempre sofferente, per anni convinta di doversene andare, sdegnata, in esilio: il clima si era fatto invivibile, la democrazia non c’era più. Naturalmente è ancora qui.
Si dirà: non c’è niente di male a volere un po’ di ricchezza, a sognare un’ascesa sociale, a inseguire un quarto di nobiltà... Ci mancherebbe: dalla società senza classi alla business class può anche essere un programma politico. Basta saperlo. Male che vada, voli Freccia alata, giri il mondo e bombardi la Serbia. È per questo che fin dall’infanzia ci si iscriveva alla Direzione del Pci.
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