In Toscana, la Chiesa inizia a capire che, visti i tempi, un cambio di strategia è probabilmente necessario. È da diversi giorni che il governatore Enrico Rossi chiede alle gerarchie ecclesiastiche di fare la «propria parte» e di rinunciare all’ esenzione Ici o a una parte dell’ 8 per mille. E, per la prima volta, da quando ha avuto inizio l’ultima polemica sui privilegi del Vaticano, il clero non si è trincerato dietro silenzi sdegnati. «Discutiamone», è la moderata apertura che ha fatto ieri il cardinale Fabrizio Porcinai, vicario per gli affari economici per la diocesi fiorentina.Sul tavolo delle trattative tra Stato e Chiesa c’è già una cifra tonda: 2 miliardi di euro. È la somma che il Vaticano ogni anno si ritrova in più nelle sue casse grazie all’esenzione del pagamento dell’ Ici dell’ Ires sui propri beni immobili e sulle attività commerciali ad esse connessi.
Se davvero una trattativa ci fosse, a negoziare per la Santa Sede sarebbe uno dei porporati più potenti e meno conosciuti d’Oltrevere. Si tratta di Domenico Calcagno, dal 2007 presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), cui fanno capo tutti gli immobili appartenenti alla Chiesa cattolica. Un patrimonio sconfinato: il 22 per cento di tutte le proprietà immobiliari che esistono sul terriorio nazionale. In ogni città quasi un edificio o un terreno su quattro appartiene al clero. Mette in soggezione l’elenco completo di tutti i beni. Il giornalista Sandro Orlando, in un’inchiesta sul Mondo del 2007, ha messo in fila le proprietà nella sola città di Roma: quattrocento istituti di suore, 300 parrocchie, 250 scuole cattoliche, 200 chiese non parrocchiali, 200 case generalizie, 90 istituti religiosi, 65 case di cura, 50 missioni, 43 collegi, 30 monasteri, 20 case di riposo, altrettanti seminari, 18 ospedali, 16 conventi, 13 oratori, 10 confraternite, sei ospizi. E ci sono inoltre altri 20 terreni e fabbricati intestati ai circa 2mila enti religiosi (30mila sono quelli sparsi su tutto il territorio nazionale) che operano nella Capitale, dove la Chiesa è proprietaria del 25 per cento degli immobili.
Compito dell’Apsa è quello di farli fruttare il più possibile. E un albergo porta molti più soldi di un convento o di un monastero. In una logica di profitti, ben venga persino il calo delle vocazioni: enormi strutture che fino a qualche anno fa ospitavano suore e novizi sono diventate finalmente remunerative, dopo averle trasformate in hotel. Si calcola, infatti, che lungo tutto lo Stivale, gli enti religiosi gestiscono circa 3300 tra case ferie, alberghi e centri di accoglienza per i pellegrini. In tutto sono circa 200mila posti letto. Il fatturato che le strutture ricettive della Chiesa cattolica mettono insieme ogni anno è da grande industria: 4,5 miliardi di euro. Tanti soldi e soprattutto facili, viste le agevolazioni fiscali che dal 2005 il governo italiano ha deciso di concedere alla Santa Sede. Sulle 3300 strutture ricettive, infatti, gli imprenditori cattolici non solo non pagano l’Ici, ma beneficiano anche di uno sconto del 50 per cento sull’Ires, la tassa sui ricavi degli affitti. Misure ritenute eccessivamente di favore da parte dell’Unione Europea, che sulle agevolazioni dello Stato Italiano alla Chiesa ha aperto un procedimento di infrazione presso l’Antitrust.
L’Apsa è dunque molto più di una semplice holding immobiliare. Paolo VI decise dare vita a questa istituzione nel 1967, con il compito di «amministrare i beni dele proprietà della Santa Sede, destinati a fornire i fondi necessari all’adempimento delle funzioni della Curia romana», sta scritto nella Costituzione apostolica. Nell’arco di quarant’anni sembra che l’Apsa sia riuscita a garantire molto più del necessario. Insieme allo Ior, la banca vaticana, è infatti una delle due fondamenta su cui si regge l’economia del Vaticano. E se l’Istituto per l’opere di Religione è saldamente nelle mani dell’Opus Dei dopo l’arrivo di Ettore Gotti Tedeschi, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica è il cento del potere di Tarcisio Bertone. È stato infatti il segretario di Stato vaticano nel 2007 a nominare Domenico Calcagno alla presidenza dell’Apsa in sostituzione di Attilio Nicora, molto vicino agli ambienti delle banche milanesi.
Il cardinale Calcagno è uno di quei clericali che forse ha molta più confidenza con la cura delle casse ecclesiastiche che con quella delle anime. Dal 1996 al 1998 è stato presidente dell’Istituto centrale per il sostentamento del Clero, per poi diventare prima economo della Cei e in seguito presidente del Collegio dei Conti del Sostentamento. L’attuale presidente dell’Apsa viene da Savona, dove l’imprenditoria porporata ha avuto qualche problema con la Procura della Repubblica. La magistratura ligure ha infatti posto l’attenzione su alcune operazioni immobiliari fatte da enti religiosi e considerate un po’ troppo spregiudicate. E Calcagno ha sempre respinto le accuse: «La finanza allegra non appartiene al mondo della Chiesa».
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