lunedì 27 dicembre 2010

Problemi e prospettive dei patti lateranensi a 25 anni dalla revisione

2009 02 18 * Fondazione Camera dei deputati

AVVERTENZA

Questo volume raccoglie gli atti del Convegno promosso dalla Fondazione della Camera dei deputati in occasione del 25° anniversario della revisione dei Patti Lateranensi, svoltosi alla Sala della Lupa di Palazzo Montecitorio il 18 febbraio 2009.
Ai saluti del Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini e del Presidente della Fondazione, Fausto Bertinotti, ha fatto seguito la relazione introduttiva del prof. Francesco Margiotta Broglio.
L’iniziativa si è conclusa con una tavola rotonda a cui hanno preso parte Gennaro Acquaviva, Carlo Cardia, Gianfranco Spadaccia e Tullia Zevi. Il cardinale Achille Silvestrini, impossibilitato a partecipare per motivi di salute, ha inviato un intervento scritto.

Giorgio NAPOLITANO
Presidente della Repubblica

Solo pochi giorni orsono sono stati ricordati gli 80 anni dalla firma dei Patti Lateranensi, che hanno posto fine a un’epoca segnata da profonde lacerazioni tra lo Stato italiano e la Chiesa.
Oggi ricorrono i 25 anni dalla conclusione dell’accordo di modificazione del Concordato, che ha consentito di consolidare le relazioni e di arricchirle di sempre nuovi contenuti, anche a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione.
È pertanto quanto mai opportuna l’occasione di riflettere offerta dall’importante convegno di studi promosso dalla Fondazione della Camera dei deputati.
Dall’insieme degli accordi del 1929 e del 1984 e dei principi enunciati dalla Carta costituzionale – che all’articolo 7 sancisce il principio secondo il quale Chiesa e Stato sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani – si è andata sviluppando una collaborazione feconda fra lo Stato e la Santa Sede. Tale rapporto, ispirato al rispetto reciproco, si traduce in numerosi sforzi volti al bene e nel pieno riconoscimento della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso.
Sono certo che il fruttuoso dialogo esistente tra le istituzioni italiane e la Chiesa, ribadito in occasione della visita ufficiale di Sua Santità Benedetto XVI al Quirinale il 4 ottobre scorso, potrà ulteriormente intensificarsi, consentendo alla comunità internazionale di affrontare le sfide del XXI secolo forti della condivisione dei principi e dei valori che sono alla base della nostra identità culturale e spirituale.
Gianfranco FINI
Presidente della Camera dei deputati

A Montecitorio non si può affrontare il tema delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa senza prima ricordare, con sincera commozione, quel momento emblematico rappresentato dalla visita, alla Camera dei deputati, di Papa Giovanni Paolo II, il 14 novembre di sette anni fa.
La presenza in Aula del Sommo Pontefice costituì un modo innovativo e, per certi versi, coraggioso per portare la Sua parola nel cuore stesso delle istituzioni e per dimostrare, anche con azioni forti che assumono il valore di un simbolo, il pieno e costante rispetto per le libere scelte compiute da tutte le istituzioni democratiche del Paese. Nel suo discorso colpirono, in quell’occasione, la sottolineatura del rispetto dovuto dalla politica alla centralità della persona umana e il richiamo rivolto al nostro Paese ad «incrementare la sua solidarietà e coesione interna per poter meglio esprimere le sue doti caratteristiche e valorizzare la sua ineguagliabile ricchezza e varietà di culture». Disse proprio così: varietà di culture. Oggi, quali considerazioni sono opportune a venticinque anni dall’Accordo di modifica del Concordato e ad ottant’anni dalla conclusione dei Patti Lateranensi? Ottant’anni sono, almeno in teoria, un anniversario non particolarmente significativo: eppure, in questo caso, si è sentito diffusamente il bisogno di sottolineare – anche con questa importante iniziativa promossa dalla Fondazione della Camera dei deputati, per la quale ringrazio il Presidente Bertinotti – una ricorrenza che, da un lato, coincide con il quarto di secolo dell’Accordo di modifica del Concordato e che, dall’altro, cade in un momento in cui le relazioni tra Stato e Chiesa stanno conoscendo sviluppi importanti non solo in Italia, ma anche, con connotazioni diverse, in altri Paesi europei. Il rapido mutamento della struttura delle nostre società, e più in generale delle società occidentali, accelerato da fenomeni epocali, quali la globalizzazione e l’informatizzazione, deve indurre tutti ad una profonda riflessione sui valori fondanti e sullo stesso sistema di relazioni che collega tra loro i cittadini e i gruppi sociali. Tali fenomeni hanno di recente mostrato tutta la loro capacità di mutare, o comunque intaccare, i tradizionali valori e i quadri di riferimento e di fungere da concausa rispetto alle crisi, in particolare quella economica e sociale, che si stanno verificando in ogni parte del mondo. In altri termini, proprio le grandi novità e turbolenze che hanno messo in discussione il benessere e le molte certezze acquisite in tante aree geografiche del pianeta hanno attirato ed attirano l’attenzione delle istituzioni statali sulla necessità di una nuova “dimensione etica e morale” della società e sulle sinergie da realizzare con i “grandi attori” che operano nel campo sociale, a cominciare dalle Chiese e, in particolare, dalla Chiesa Cattolica. Inoltre, la nuova presenza, visibile ed assertiva, di altre confessioni nel nostro Paese richiede un approccio culturale e politico che consenta alla società italiana di arricchirsi per i nuovi apporti di carattere religioso e spirituale, senza per questo snaturare la propria identità cristiana maturata nel corso dei secoli. L’aumentata presenza nella società di nuovi movimenti religiosi di diversa origine culturale e geografica, la crescente presenza islamica tra i tanti immigrati extracomunitari, la mancata approvazione di una legge di carattere generale che garantisca la libertà religiosa, la scomparsa della Democrazia cristiana e la conseguente presenza cattolica trasversale nella quasi totalità dei movimenti politici, la forte influenza, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, della normativa contro la discriminazione e per il rispetto delle identità religiose e culturali, sono tutte questioni nuove, che riconducono alla complessa problematica del multiculturalismo e del pluralismo religioso. Se si osserva attentamente la nostra storia recente dobbiamo constatare che l’Italia è un Paese che ha subito, fino ad oggi, poche tensioni inter-etniche, perché è stato in grado di realizzare una accoglienza positiva per le minoranze religiose, assai più di quanto abbiano saputo fare altri Paesi, come la Germania, la Francia e l’Inghilterra. Si potrebbe obiettare che ciò è avvenuto in ragione del fatto che, in Italia, le minoranze etniche, se pur consistenti, sono di più recente insediamento e finora meno organizzate che in altri Paesi. Ma il multiculturalismo, che, a mio avviso, concorre a dar corpo ad una nuova configurazione della idea di Nazione, è un fenomeno destinato inevitabilmente a crescere nella misura in cui le diverse culture faranno sempre più sentire la propria presenza ed influenza nei comportamenti dei futuri cittadini italiani. In questo scenario prossimo venturo, l’identità religiosa è parte integrante ed elemento costitutivo del concetto di Nazione, del quale contribuisce a definirne uno degli aspetti più caratterizzanti. E, pertanto, da questo assunto, la stipulazione di diverse Intese con culti non cattolici potrebbe recare un utile contributo al riconoscimento e all’accoglienza di tutte quelle diversità e specificità confessionali, ed etniche, che non collidono con i princìpi generali dell’ordinamento e soprattutto con le garanzie dei diritti umani di libertà e di uguaglianza. La prospettiva cambia, ovviamente, qualora la delicata questione del multiculturalismo venisse affrontata con l’obiettivo di favorire una società divisa per etnie, o per comunità confessionali, a ciascuna delle quali competa il diritto di regolare con potestà autoritativa i comportamenti dei rispettivi aderenti o appartenenti. Se malauguratamente si scegliesse questa via, si metterebbe in pericolo la capacità stessa dell’Italia di rimanere una Nazione coesa, accumunata da valori condivisi. L’analisi culturale che riguarda i valori fondanti della società contemporanea ha fatto sì che, nella laicissima Francia, il Presidente Sarkozy, nel suo discorso pronunciato a San Giovanni in Laterano nel 2007, abbia proposto il concetto di “laicità positiva” con cui ha voluto evidenziare la fine dell’indifferenza dello Stato francese nei confronti del fenomeno religioso, confinato, oltralpe, da lungo tempo, nell’ambito di una dimensione tutta personale e privata, completamente separata da quella pubblica. Nuovo per la Francia, e indicativo di un cambiamento di approccio culturale estremamente significativo, il concetto di “laicità positiva” era già ben presente nell’Accordo di modifica del Concordato del 1984, concluso con il contributo importantissimo fornito da due insigni studiosi che oggi sono qui presenti: il professor Francesco Margiotta Broglio e il professor Carlo Cardia. L’Accordo del 1984 abbandonava, infatti, quell’atteggiamento “di difesa” nei confronti dello Stato che aveva caratterizzato i Concordati tradizionali e che si basava sulla convinzione dell’esistenza del cosiddetto “stigma” delle “relationes imperfectae” che, secondo i canonisti del tempo, caratterizzava il rapporto della Chiesa con le entità statuali. L’Accordo Craxi-Casaroli fu il primo esempio di un “Concordato-quadro”, vale a dire di un accordo concordatario che si astiene dal normare puntualmente i singoli aspetti che caratterizzano le relazioni tra Stato e Chiesa, ma che, in un’ottica di reciproca collaborazione, si limita a rimandare la disciplina concreta dei singoli settori a successivi accordi o a intese attuative tra il Governo e la Conferenza Episcopale italiana.
Da allora, e di conseguenza, si è fatta strada una nuova e positiva concezione di laicità che, basata sull’articolo 7 della Costituzione, è espressa nell’impegno alla “reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e per il bene del Paese” (articolo 1 dell’Accordo). Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha più volte ribadito questo concetto. Da ultimo, lo ha fatto in occasione della visita di Benedetto XVI al Quirinale, quando ha pronunciato le seguenti parole: «conosciamo e apprezziamo, come ho avuto modo di dire nel mio primo messaggio al Parlamento, la dimensione sociale e pubblica del fatto religioso». Tanto il Governo precedente, quanto quello attualmente in carica, hanno riconosciuto e riconoscono l’importanza delle radici ebraico-cristiane dell’identità culturale europea e, indipendentemente dalle convinzioni religiose ed ideali di ciascuno di noi, vi è oggi un pressoché unanime riconoscimento dell’utilità dell’azione di coesione e di sostegno svolta dalla Chiesa nella società italiana. In conclusione, sia il recepimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione, che l’Accordo di Villa Madama, hanno costituito momenti di grande condivisione tra le diverse forze politiche nazionali che hanno rafforzato la cooperazione tra lo Stato e la Chiesa, pur nella distinzione dei rispettivi ordini e competenze. Al di là di ogni retorica, si può dire che il tempo trascorso dall’Accordo di revisione del Concordato lateranense ha fatto emergere le potenzialità di una sistemazione dei rapporti tra Stato e Chiesa nuova, diversa dal passato, che ha favorito un progressivo disvelamento di quel principio di laicità dello Stato, che i costituenti avevano racchiuso, ma non esplicitato formalmente, nella Carta fondamentale. Una laicità non aggressiva nei confronti della religione; aliena da degenerazioni laiciste ed anticlericali; aperta al riconoscimento del ruolo attivo e positivo della Chiesa nella nostra società.Un modello di laicità che, a ben vedere, ha, tra le sue radici, anche la dottrina sociale della Chiesa, con la sua tesi sull’indipendenza e sull’autonomia della stessa Chiesa dalla comunità politica e viceversa.Una laicità, quella dello Stato italiano, la cui storia, come ha scritto Ernesto Galli Della Loggia, «appare troppo inestricabilmente intrecciata alla vicenda del Cristianesimo e della Chiesa romana perché sia realmente plausibile immaginare un reciproco disinteresse, una reale indifferenza dell’una rispetto all’altra all’insegna dell’unilateralità. Alla fine, nella sua essenza e al di là di ogni possibile, anche necessaria, disputa dei suoi contenuti, il Concordato non è che la presa d’atto di questo dato».

Fausto BERTINOTTI
Presidente della Fondazione della Camera dei deputati

Celebriamo oggi, con questo ricordo e con queste testimonianze, i 25 anni dall’accordo di modifica del Concordato e gli 80 anni di un fatto storico, i Patti Lateranensi, entrati a far parte del lungo e tormentato corso che ci ha condotti ad essere qui, oggi, in questo Paese e in questa Repubblica.
Si tratta di fatti importanti e controversi. Per la loro originalità i Patti Lateranensi costituiscono, tra le pietre con cui si è costruito l’edificio della Repubblica, un fatto pressoché unico tra i grandi eventi. Grandi eventi che, quand’anche controversi in origine, hanno poi guadagnato un unanime consenso. In questo caso esso si è rivelato più difficile malgrado si debba constatare che ha aperto un capitolo che oggi viene ripreso in molti Paesi europei nella logica di fissare il rapporto Stato e Chiesa attraverso un Concordato.
I Patti Lateranensi sono stati un’operazione complessa e difficile da entrambi i lati: con il Trattato si è sancita l’indipendenza e la sovranità della Santa Sede, della Città del Vaticano, e il mutuo riconoscimento con il Regno d’Italia; con il Concordato si sono fissate le relazioni civili e religiose tra la Chiesa e il Governo italiano.
Per sua natura l’ispirazione concordataria contiene un possibile sviluppo di questa relazione. E questa sua intrinseca caratteristica ne ha consentito lo sviluppo nella storia del Paese attraverso due tappe importanti: la prima, quella del ’48, con il riconoscimento costituzionale dei Patti; la seconda, quella del 1984, con l’accordo di modifica del Concordato. Entrambe queste tappe sono state rese possibili dal fatto che l’articolo 7 non ha parificato il contenuto dei Patti Lateranensi alle norme costituzionali; al contrario si è costituzionalizzato il principio concordatario.
I Patti Lateranensi hanno modificato profondamente il rapporto tra lo Stato e la Chiesa, così come era uscita dal Risorgimento italiano. Le Leggi delle Guarentigie, votate dal Parlamento dopo la presa di Roma, non erano state riconosciute dai pontefici che si erano succeduti ed avevano così visto fissarsi il loro carattere unilaterale. Eppure nella formula cavouriana “Libera Chiesa in libero Stato”, il cui valore ancora oggi è assai vivo, si considerava l’ipotesi concordataria come necessaria. Era stato Cavour stesso a chiedersi: «Potrò forse segnare dal Campidoglio un’altra pace di religione, un Trattato che per l’avvenire della società umana avrà delle conseguenze ben altrimenti grandi della pace di Westfalia?».
Un’analoga considerazione del problema era emersa nella storia del movimento operaio, Togliatti ricordò che il giovane Gramsci del 1912, allievo di Francesco Ruffini, riteneva che qualora si fosse realizzato un regime socialista in Italia, questo avrebbe dovuto risolvere in primo luogo la questione romana, determinando la piena libertà della Chiesa nella società.
Dunque l’esito concordatario non era imprevisto. Cosa ne ha determinato il contrasto? E su che cosa esso si è manifestato? Si possono individuare due elementi di quel contrasto. Il primo, politico, è riassumibile nella firma di Mussolini, del Duce, accanto a quella del cardinale Gasparri, cosa che faceva considerare all’antifascismo il rischio di un peso del Concordato nella stabilizzazione del regime fascista, a cui credo aveva concorso il famoso discorso di febbraio di Pio XI su “L’uomo che la provvidenza ci ha fatto incontrare”.
Il secondo elemento è una preoccupazione di origine laica, che fin dalla nascita dei Patti Lateranensi motivò il voto contrario di un intellettuale come Benedetto Croce.
Tuttavia c’è un punto forte che è stato sempre condiviso nella storia di quell’operazione. Lo individuò Piero Calamandrei nel suo vigoroso discorso contrario al riconoscimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione italiana. L’elemento loro riconosciuto di valore è stato l’aver messo fine alla questione romana, cioè l’aver in ogni caso acquisito un punto fermo nella storia del Paese, nella sua unificazione, nel suo costituirsi come nazione.
Al di là dell’elemento assai importante, e per molti versi fondamentale per la nostra storia, della risoluzione della questione romana, a tenere aperta la controversia è stata dunque la questione del rapporto tra Stato e Chiesa sul terreno dell’ordinamento culturale e civile. Quell’elemento muoveva dal fatto che nei Patti Lateranensi la religione cattolica apostolica romana veniva riconosciuta come la sola religione dello Stato.
Questa controversia è stata raccolta in termini su cui ancora oggi ci interroghiamo, ma di cui credo nessuno possa ignorare l’interessante e dinamica capacità di revisione avvenuta con l’accordo del 1984.
Veniva raccolta, allora, la preoccupazione che si era fatta strada nell’Assemblea costituente: le forze fondamentali che hanno costruito l’impianto generale della Costituzione, infatti, furono attraversate da una profonda divisione su questo punto. Si tratta dell’unico punto della Costituzione italiana su cui si è manifestata una importante divisione nel voto misurabile anche nella quantità: circa 350 contro 150. Insomma, una divisione che pesava. Eppure anche in quell’occasione i costituenti si erano avvicinati, prima della divisione, a una soluzione pressoché unanime sull’emendamento che prendeva il nome dal suo proponente, l’onorevole Lelio Basso. L’emendamento recitava: «La Chiesa cattolica è nell’ambito proprio libera e indipendente; i rapporti tra lo Stato e la Chiesa italiana sono regolati in termini concordatari».
L’emendamento fu respinto ma è significativo che, intervenendo per dichiarazione di voto, De Gasperi sostenne che in un’altra condizione quell’emendamento avrebbe potuto raccogliere il consenso unanime dei costituenti, e che era stata soltanto la precedente modalità di discussione in Commissione ad impedirne l’accoglimento.
Se riflettiamo sull’eredità che ora raccogliamo, credo si possa dire che l’accoglimento o il rifiuto della tesi che vedrebbe la religione come incapace di investire la sfera pubblica non fu mai un elemento di contrasto davvero decisivo. La controversia non è e non può essere se la religione sia un fatto privato oppure se investa la sfera sociale e pubblica. Mi pare evidente che questa relazione sia stata acquisita nella storia del nostro Paese e dell’Europa.
Del resto si può ricordare, a questo proposito, che la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici risale a un’opera fondamentale del diritto costituzionale, quella dell’ordinamento giuridico di Santi Romano. In essa veniva superata l’idea che il diritto derivi solo dallo Stato e si propugnava la tesi – diventata poi senso comune – secondo cui il sorgere originario del diritto non è solo nello Stato ma in tutte le istituzioni che formano la società, in tutte le comunità, tra cui la Chiesa.
Lo ricordava anche il cardinale Silvestrini in un articolo pubblicato su «Il Sole 24 Ore» la settimana scorsa, nel quale si dava conto dell’impegno e del lavoro svolto nel 1984. Lavoro svolto anche per rimuovere la formula originaria della religione di Stato e per approdare all’accoglimento dell’ispirazione costituzionale secondo cui Stato e Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani. Si tratta quindi di un ordinamento nuovo, su cui abbiamo organizzato i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia.
È stato detto che all’esperienza concordataria si deve in larga misura la pace religiosa. Credo tuttavia che bisognerebbe evitare l’assolutizzazione secondo la quale la pace religiosa dipenderebbe esclusivamente, o quasi, dalle relazioni diplomatiche e dall’ordinamento. In realtà queste ultime vi possono concorrere, ma affinché si possa realizzare la pace religiosa, il rispetto tra credenti e non credenti, c’è bisogno, in primo luogo, della condivisione delle sorti della Repubblica, del bene comune.
Vorrei ricordare ancora Calamandrei quando, intervenendo contro l’articolo 7 (che allora si configurava come articolo 5), parlò della pace religiosa e disse che quella pace seppur aveva potuto servirsi anche di un’intesa controversa, come quella dei Patti Lateranensi, tuttavia si era fondata essenzialmente sulla storia del Paese, sulla storia attraverso la quale un popolo aveva organizzato la lotta al nazifascismo nella Resistenza e, in essa, tante parrocchie e luoghi di culto erano diventati i luoghi in cui il senso democratico, questo senso di futuro, si era trasfuso nella comunità, diventando la storia del Paese e la prefigurazione del bene comune.
Vorrei infine riprendere un punto citato dal Presidente Fini, che ritengo assai significativo. Oggi la laicità è chiamata a una nuova frontiera: per poter vivere non può più fondarsi soltanto sulla distinzione dello Stato nei confronti della Chiesa. Essa ha di fronte a sé nuove sfide che riguardano direttamente il cuore dell’autonomia della politica. Mi riferisco alla capacità della politica di avere uno statuto autonomo, fondato su un proprio sistema di valori e su una propria eticità, attraverso cui fronteggiare le sfide del mondo contemporaneo.
Vorrei segnalare due di queste sfide in particolare. La prima deriva da un’innovazione scientifica che, con la sua capacità e necessità di crescita, approda a esperienze come le biotecnologie e le bioscienze che intervengono direttamente sull’umano e ci portano a ridosso degli stessi destini dell’uomo. Tale condizione rischia di produrre nuovi fondamentalismi che possono affondare la loro radice sia in fenomeni religiosi, che in processi economici o scientifici. La politica potrà far valere il suo statuto di autonomia se sarà capace, oggi e domani, di contrastare ogni fondamentalismo e di proporre una sua propria visione non soltanto sulla società, ma anche sui destini dell’uomo.
La seconda sfida del modo contemporaneo riguarda il mutamento della composizione culturale e civile dell’Europa e dell’Italia. Paesi che hanno vissuto la loro storia anche attraverso drammatici e grandi processi di emigrazione diventano, stanno diventando e diventeranno Paesi di immigrazione. Non si tratta solo di un elemento quantitativo, ma anche qualitativo: culture, storie, religioni e civiltà diverse entrano a comporre il nuovo popolo della nuova Europa e della nuova Italia. La laicità si misura su questo terreno: solo se la politica sarà altamente motivata, sarà in grado di realizzare una convivenza civile multietnica, multirazziale e multireligiosa.
La laicità ha dunque di fronte queste sfide che promanano dalla modernità ma ritengo – lo dico modestamente – che anche le religioni abbiano di fronte le stesse sfide.
Pochi giorni fa mi è capitato di leggere un articolo di padre Enzo Bianchi che mi ha molto colpito. Si citava una famosa frase di un Pontefice, che recita così: «Se la religione diventa una religione civile, può perdere la fede». E’ una frase su cui conviene continuare a riflettere.

RELAZIONE INTRODUTTIVA


Francesco MARGIOTTA BROGLIO

Nell’anno in corso non ricorrono soltanto gli 80 anni degli Accordi Mussolini-Gasparri, i 35 del Referendum popolare sul divorzio e i 25 del Patto Craxi-Casaroli, ma anche i 90 anni di quelle intese raggiunte a Parigi, nel giugno 1919, dal Presidente del Consiglio Orlando e dall’inviato di Benedetto XV, Mons. Cerretti. Mi sia consentito di richiamarle non solo perché senza quella prima trattativa, rimasta a lungo segreta, ma rivendicata dallo stesso Orlando alla Costituente, non si sarebbe arrivati alla Conciliazione del ’29, ma anche perché l’incontro parigino si fondava sulle (solo da poco note) conclusioni della riunione – convocata da Gasparri e verbalizzata da Eugenio Pacelli – dei cardinali della Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari del marzo 1917 che doveva consentire alla S. Sede di rendersi conto dell’impossibilità di un qualsiasi ampliamento della piccola “enclave” vaticana che gli invasori del XX settembre avevano lasciato al vescovo di Roma. Dopo aver ascoltato le diverse opinioni, il cardinal Gasparri concluse che, se una conciliazione con l’Italia sulla base dello “status quo” era inaccettabile, la “restaurazione del dominio temporale pontificio” era “moralmente impossibile”, anche se ristretta “alla sola Città Leonina con una striscia al mare”, mentre restava praticabile qualche miglioramento alla penosa situazione attuale della S. Sede (Margiotta Broglio).
Era stata la “strage” bellica (definita, tra le polemiche, “inutile” da Papa Benedetto XV nella Nota ai belligeranti del 10 agosto 1917) a rivelarsi “utilissima” alla S. Sede per rientrare, da attore “di fatto”, sulla scena internazionale fin dalla Conferenza di Versailles (Scottà, cur., 2003) e “di diritto” con il recupero, dieci anni dopo, della sovranità temporale sulla Città vaticana, grazie allo scambio di “favori” con il regime fascista, che le permise di disporre, pur continuando ad operare nella dimensione spirituale “superiore” della Città di Dio, di un “pied à terre” (Delos), anche nella Città degli uomini (d’Avack, Jemolo, Cardia). Se si pensa che solo all’inizio della guerra l’Italia, proseguendo sulla linea adottata in occasione delle conferenze internazionali dell’Aja nel 1899 e nel 1907, aveva ottenuto dalle potenze dell’Intesa il consenso sulla totale esclusione della Santa Sede dalla futura conferenza di pace (art. 15 del Patto di Londra), che l’immagine provvidenzialistica della guerra come “castigo di Dio” (Menozzi) e la ricordata Nota papale dell’agosto 1916 avevano scontentato tutti i belligeranti (nel novembre del ’18 l’Ambasciatore francese presso il Quirinale, Barrère, parlerà di un Vaticano «complètement désorienté et très abattu, et ne sachant quelle attitude prendre») (Lacroix – Riz) e che la cosiddetta “carta americana”, messa nelle mani di mons. Bonzano e del cardinale di Baltimora, Gibbons, non venne ben giocata, appare di tutta evidenza la funzione essenziale che ebbero, per la rinnovata presenza internazionale post-bellica del Vaticano di Benedetto XV, sia le iniziative di pace della Santa Sede (Paolini) sia la sua disponibilità verso i nuovi Stati, le “civitates funditus novatae”(Gorino Causa), per aprire la strada alla proliferazione concordataria del pontificato di Pio XI al centro della quale si collocano, appunto, i Patti Laternanensi del ’29.
Nel documento preparato dal Gasparri e consegnato ad Orlando a Parigi da Mons. Cerretti, infatti, si prevedeva in sintesi quanto verrà poi “concordato” nel ’29 per attribuire la sovranità al pontefice e costituire lo Stato vaticano che ha in questi giorni, festeggiato il suo 80° compleanno. Mi si consenta di aggiungere un inedito elemento che comprova il cambiamento di clima nei rapporti Italia-Vaticano nel corso della Grande Guerra: nel 1917, appena conclusa la monumentale preparazione del Codice di diritto canonico, Gasparri, ancora in piena questione romana, si premurava di inviarne copia al Presidente Orlando, attraverso un regolare intermediario che sedeva sui banchi di Palazzo Madama, il quale si premurò a sua volta di contraccambiare immediatamente l’omaggio inviandogli, attraverso la medesima personalità, una copia dell’altrettanto monumentale Trattato di diritto amministrativo in vari volumi da lui progettato e diretto.
Mussolini, quindi, che si decise solo dopo il 3 gennaio 1925 a trattare con il papato una soluzione bilaterale delle questioni della sovranità territoriale e del concordato, trovò il terreno ben dissodato dagli ultimi governi liberali (anche Nitti si era mosso nella direzione seguita da Orlando), ma poté imprimere ai negoziati quella spinta, riservata ma ufficiale, che fino ad allora era mancata e seppe superare le molte difficoltà che Vittorio Emanuele III aveva frapposto all’azione del presidente della vittoria. Non solo, ma, come dimostra un documento nuovo ed inedito che cito per la prima volta, già prima dell’inizio dei colloqui e degli incontri che porteranno alla Conciliazione (agosto 1926), il Duce aveva fatto conoscere direttamente al Pontefice, attraverso il card. Gasparri e grazie al medesimo senatore Silj, cugino del Segretario di Stato e intermediario tra Orlando e il Vaticano, i suoi capisaldi per quello che, nel ’29, diventerà il Trattato del Laterano. Nel documento, comunicato da Gasparri al Papa il 24 febbraio 1926, Mussolini si diceva disposto:
«1) a riconoscere alla Santa Sede la proprietà dei Palazzi Apostolici con tutto ciò che ivi si contiene, musei, biblioteche etc;
2) ad aggiungere, ai Palazzi, del territorio da determinarsi di comune accordo (egli usò la parole di dipendenze);
3) ad ammettere la extra-territorialità di tutto ciò che appartiene alla Santa Sede;
4) a riconoscere palazzi e territorio come Stato indipendente, e far sì che come tale sia riconosciuto anche dalle altre nazioni ».
Su queste basi il Duce incaricò il sen. Silj di tastare prudentemente il terreno presso il card. Gasparri «riservandosi, se l’accoglienza non era addirittura negativa di fare altri passi in proposito».
Poco più di cinque mesi dopo iniziarono i negoziati che porteranno, con la diretta partecipazione del Duce all’ultima fase di essi, l’11 febbraio 1929 alla firma del Trattato, sulle basi sinteticamente formulate in questo documento, e del Concordato che, sopravvissuto alla nascita della Repubblica e alla “prova” della Costituzione, verrà riformato il 18 febbraio di 25 anni fa dal Presidente del Consiglio Craxi e dal Segretario di Stato, Casaroli, nelle sale di Villa Madama.
Se i Patti del 1929 avevano segnato la fine del lungo dissidio risorgimentale tra la Chiesa e lo Stato il loro contenuto aveva, però, comportato la confessionalizzazione dell’ordinamento giuridico italiano. Quando nel 1946 venne deciso di regolare in Costituzione la libertà religiosa e di culto degli individui e delle confessioni religiose, il Vaticano di Pio XII fece forti pressioni, dirette e indirette, sui partiti presenti alla Costituente affinché, pur dovendosi demolire le strutture del regime fascista per dar vita alla democrazia, i patti del ’29 – che prevedevano tra l’altro come religione dello Stato quella Cattolica, le preghiere per il Capo dello Stato, la rimozione dagli impieghi a contatto con il pubblico degli ex-sacerdoti, l’ora di religione obbligatoria nelle scuole e controlli statali sulle nomine di vescovi e parroci – non solo rimanessero integralmente in vigore, ma venissero anche espressamente menzionati nella Costituzione. Dopo un vivace dibattito di alto livello ideale, la Costituente approvò il vigente art. 7 con il voto favorevole di democristiani, comunisti e di alcuni liberali; contrari socialisti, repubblicani, azionisti e democratici del lavoro. La norma disponeva che lo Stato e la Chiesa fossero sovrani e indipendenti nei rispettivi e distinti “ordini” (cioè settori di competenza), che i loro rapporti fossero regolati dai Patti del ’29 e che per modificare tali accordi fosse necessaria l’accettazione delle due Parti o, in caso di modificazione unilaterale da parte italiana, il procedimento previsto per la revisione della Costituzione (art. 138). Quest’ultima clausola fece per molti anni prevalere la tesi della “costituzionalizzazione” delle norme pattizie – che andavano, quindi, applicate anche se contrastanti con i principi costituzionali – fino a quando la Corte costituzionale, nel 1971 qualificò le relative leggi di esecuzione come leggi ordinarie “rinforzate”, ma non di rango costituzionale. Si aprì così la strada al lungo procedimento di adeguamento dei Patti alla Costituzione, attraverso la loro modificazione bilaterale, che si concluse con l’ ”Accordo” del 1984 e con la legge sugli enti e beni della Chiesa del 1985. Un Accordo al quale hanno fanno seguito “intese” tra lo Stato e i culti diversi dal cattolico, che hanno, in sostanza, ridimensionato la differenza di trattamento tra le religioni avvicinando, se non proprio allineando, tali soggetti alla condizione giuridica della religione cattolica maggioritaria nel Paese. Nella disposizione costituzionale va sottolineata la distinzione degli “ordini” separati della Chiesa e dello Stato, sancita nel primo comma, che insieme a quelle sui diritti inviolabili, l’ uguaglianza dei cittadini, l’uguale libertà di tutte le religioni, la libertà di religione o convinzione, ha consentito alla Corte costituzionale – proprio con riferimento ad una disposizione del nuovo Concordato – di ricostruire il principio supremo di laicità dello Stato come profilo della forma di Stato delineata dalla Carta (1989). Un principio che sovrintende a quelli dell’autonomia confessionale e delle relazioni pattizie tra Stato e religioni, che implica neutralità, ma non indifferenza dello Stato nei confronti delle fedi e delle convinzioni non religiose, che chiarisce come nessun atto di significato religioso possa essere oggetto di prescrizioni statali e come gli obblighi morali derivanti dall’appartenenza religiosa non possano “essere imposti come mezzo al fine dello Stato”.
Si continua a discutere, oggi, sulla validità della Costituzione, sulle culture politiche che la produssero, sulla difendibilità dei suoi principi e delle sue disposizioni. Le polemiche sui simboli religiosi negli spazi pubblici (velo islamico, kippah ebraica e crocefisso cristiano nelle scuole, foto di identità delle suore e delle islamiche con il capo velato etc.) hanno finito per investire anche i principi “supremi” della Costituzione in materia di libertà religiosa degli individui e delle comunità. Si è già ricordato che, grazie a una serie di situazioni e motivazioni politiche del momento, un aspetto sul quale la Carta della Repubblica non solo non innovò, ma addirittura conservò integralmente, rafforzandolo sul piano della gerarchia delle leggi, il sistema “concordato” nel 1929, fu quello dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica. La convergenza “iniziale” di democristiani e “finale” di comunisti, produsse, alla Costituente il già citato capoverso dell’articolo 7 che stabiliva che quei rapporti continuassero ad essere regolati dai Patti Lateranensi del 1929, come se il Fascismo non fosse caduto e la Repubblica non fosse nata. Azionisti, liberali e socialisti (ma anche i “gentiliani” e i “crociani” che, da opposte sponde, erano stati ostili alla Conciliazione del ’29) videro, così, deluse le speranze di tornare, con la democrazia, a un regime dei culti fondato sul separatismo e l’uguaglianza delle religioni. Il compromesso costituzionale, però, comportò l’esclusione dell’indissolubilità del matrimonio (da qui il divorzio del 1970) e del finanziamento della scuola privata, e consacrò due principi che avrebbero più tardi rivelato tutta la loro carica innovativa. L’art. 7, volendo codificare la sovranità e l’indipendenza della Chiesa, dovette stabilire la separazione tra il suo ordine e quello dello Stato, con il trasferimento di “Dio” dal diritto pubblico a quello privato. L’art. 8, volendo sancire l’uguale libertà (non, come avrebbero voluto i laici, l’uguaglianza) di tutte le confessioni, dovette codificare il sistema di relazioni pattizie (intese) dello Stato con tutte le religioni, riconoscendone il diritto ad autodeterminarsi con il limite non dell’ordine pubblico, ma della conformità degli statuti confessionali con l’ordinamento giuridico. Nè l’ordine pubblico limita, in Costituzione, il diritto di professare liberamente la fede religiosa (o le proprie convinzioni, anche ateistiche) e di esercitarne il culto, subordinato al solo rispetto del “buon costume” (art. 19), mentre nessuna limitazione legislativa o gravame fiscale “speciale” possono essere previsti per associazioni o istituzioni con fine di religione o di culto (art. 20). Quando i costituenti definirono questa articolata cornice normativa, il paesaggio religioso italiano era assai semplice e omogeneo: la maggioranza cattolica, le comunità ebraiche, le antiche chiese valdesi, alcune confessioni evangeliche, i greco-ortodossi di Venezia. Paradossalmente il meccanismo costituzionale pensato per queste realtà si è rivelato in grado di governare il crescente pluralismo culturale e religioso che caratterizza l’Italia degli ultimi venti anni (l’Islam è la seconda religione con circa un milione di fedeli ed oltre 25 edifici o luoghi di culto; gli studenti stranieri sono il 3,50 per cento).
Ci si deve, però, chiedere a oltre sessant’anni anni dalla sua fondazione, se la Repubblica democratica abbia mai avuto una vera e coerente “politica religiosa”. È noto che la Resistenza non ebbe né il tempo, né forse l’intenzione, con qualche eccezione liberal-socialista, di immaginare un approccio post-fascista alla condizione giuridica dei “culti ammessi” e alle relazioni con la “religione dello Stato”. Si continua a citare, come unica seria riflessione sul tema, il famoso opuscolo di Jemolo per la pace religiosa edito nel ’44 dalla Nuova Italia di Codignola. Alla Costituente, in ultima analisi, si ha l’impressione che tutte le posizioni fossero un po’ improvvisate, mancò un vero approfondimento non tanto dei profili del sistema concordatario, che nessuno metteva in discussione, o dello stesso richiamo dei Patti del ’29 che la Santa Sede sostanzialmente impose agli stessi democristiani, quanto della tematica delle libertà religiose, del modo di ridare cittadinanza, al di là di quello che sarà lo stesso articolo 8 della Costituzione, alle religioni di minoranza che ottennero è vero un nuovo status, ma grazie anche a una sorta di intervento ab extra del protestantesimo nord americano del quale il governo USA si fece portavoce presso le autorità italiane. La stessa posizione degli azionisti e del Psi su quello che sarà l’art. 7 Cost., fu dettata in sostanza dalla tradizione post-risorgimentale, offesa da una Chiesa che aveva ritenuto, come Enrico IV di Francia, che Parigi valeva bene una messa e che aveva messo all’indice (1934) l’opera omnia di quel senatore Croce il quale, nel suo discorso del 1929 al Senato, aveva appunto dichiarato che, per lo sparuto gruppo degli eredi delle Guarentigie, la messa valeva ben più di Parigi.
Né – al di là della richiesta di integrale conservazione dell’assetto fascista dei rapporti Stato-Chiesa – la riflessione fu più esauriente sull’altra sponda del Tevere, se il progetto di Costituzione fatto approntare da Pio XII ai padri gesuiti della «Civiltà Cattolica», si muoveva in una dimensione strettamente confessionale e addirittura pre-lateranense (gli stessi Accordi del ’29 venivano ritenuti un cedimento allo Stato italiano che aveva, pur sempre, privato del suo regno il Sovrano Pontefice). Perfino la Segreteria di Stato, nella persona di mons. Dell’Acqua, restò perplessa di fronte alle posizioni di Villa Malta, che comunque furono comunicate ai costituenti DC e ad alcuni costituenti “amici” di orientamento liberale o qualunquista.
La fase successiva, i quasi quarant’anni che vanno dall’elaborazione della Carta costituzionale alla revisione dei Patti del Laterano, ratificata il 25 marzo ’85 e conclusasi solo 24 anni fa con la legge 222 del 20 maggio 1985, non vide, fino a metà degli anni ’60, ma soprattutto fino a dopo il 1970 (legge sul divorzio), nessun programma, partitico o governativo, di politica religiosa che almeno impostasse la soluzione dei due problemi rimasti aperti nel ’47: adeguare i Patti Lateranensi ai nuovi principi della democrazia costituzionale; stipulare le intese previste dalla Costituzione con le confessioni di minoranza e soprattutto sostituire la normativa del 1929-30 sui culti ammessi e sulle comunità ebraiche (che comunque la Santa Sede pretendeva tornassero, come prima di Mussolini, soltanto tollerati) con accordi e con una legge organica sulla libertà religiosa.
Ad affrontare la revisione dei Patti del ’29 i partiti di centro, di destra o di sinistra, e i governi della Repubblica furono obbligati da due fattori che potremmo considerare esterni alla vita parlamentare. Nel 1967 la famosa questione del Vicario che mise in evidenza l’insostenibilità di una norma pattizia che proteggeva il carattere sacro di Roma in un contesto dove, dopo il Giubileo del ’50, la “Sacralità” stentava molto a farsi percepire e dove la legge sul divorzio del ’70 e la svolta del ’71 nella giurisprudenza della Corte costituzionale (le disposizioni di derivazione concordataria non possono violare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale) segnalavano un mutamento politico da non sottovalutare. Nel 1974, inoltre, l’esito del referendum popolare sul divorzio, voluto dalle gerarchie ecclesiastiche e dalla maggioranza del mondo cattolico mise in piena evidenza la profonda trasformazione, sul piano dell’obbedienza ai precetti religiosi e alle specifiche indicazioni del magistero romano, dei contesti socio-culturali della penisola.
Dopo le incertezze della Commissione Gonella e le titubanze dei politici democristiani che non vollero rendere noti i risultati di quel primo, timido inizio di una politica religiosa, accadde che Guido Gonella, che aveva appunto presieduto la Commissione governativa per la revisione del Concordato, tagliato fuori dalle trattative tra mons. Bartoletti, segretario della Cei, e l’ambasciatore d’Italia presso il Vaticano, Pompei (trattative volute da Paolo VI e dal Presidente del Consiglio Moro, con l’avallo di quel Nenni che aveva guidato alla Costituente l’opposizione all’art. 7), si decise a consegnare la documentazione dei lavori della sua commissione a Giovanni Spadolini, ministro del Governo Moro-La Malfa, cui lasciò la responsabilità politica della pubblicazione. Quello stesso Spadolini che sulla «Stampa» del 3 marzo ’73 aveva intitolato un suo articolo, un anno prima del referendum sul divorzio, Un Concordato da abbandonare e che, pubblicando, appunto, gli atti della Commissione governativa Gonella ne mise in luce i profondi limiti e fornì, con la sua presentazione critica dei materiali e con una serie di interventi pubblicati nella «Nuova Antologia» da lui diretta (Jemolo, d’Avack, Barile etc.) elementi a Moro e all’ambasciatore Pompei, per abbandonare la strada fino ad allora battuta per la revisione del Concordato. Una strada che lo stesso Jemolo componente di rilievo della Commissione Gonella, aveva giudicato inadeguata in una lettera a Spadolini del 28 maggio 1976 dove scriveva: « non è dubbio che gli atti della Commissione Gonella fossero già in ritardo sulla coscienza del tempo; ma il guardasigilli Gava…ci aveva ricordato… che il nostro compito era limitato e che non si potevano toccare clausole del Trattato». Quanto a lui stesso precisava di aver dichiarato agli atti della Commissione che «servire lo Stato in quest’opera non significava punto abbandonare la … fede separatista», maturata all’ombra del suo maestro Ruffini.
La conseguenza dell’emarginazione di Gonella dalle trattative Bartoletti-Pompei (che possono essere seguite sui diari editi del diplomatico e sulle agende inedite del segretario CEI) fu che, quando, negli ultimi mesi del ‘76 l’uomo politico DC, officiato dal Presidente del Consiglio Andreotti, iniziò le trattative ufficiali con la Santa Sede – che si concluderanno dieci anni dopo con il negoziato diretto Craxi-Casaroli assistiti dagli esperti delle due parti – finì per reagire, a sua volta, chiudendo in un cassetto il progetto del governo Moro e decise, con una Santa Sede ben lieta di abbandonare le linee seguite da mons. Bartoletti con il personale avallo di Paolo VI, di ripartire dal testo messo a punto dalla commissione da lui presieduta nel 1969, il testo sul quale lo stesso Jemolo, che ne era stato uno dei redattori, aveva espresso qualche mese prima il giudizio che si è sopra richiamato.
Ricorderei peraltro, che solo sulla base di un promemoria consegnato da Moro a Nenni nei primi mesi del ’75 che sintetizzava le posizioni della Santa Sede sui punti del concordato da rivedere, Nenni iniziò a far cambiare linea al suo partito determinando quindi, quella conclusione che Craxi potrà realizzare con gli Accordi del febbraio 1984. Posizioni che si ritrovano nel progetto Pompei-Bartoletti che io stesso, con il consenso del Presidente Andreotti, dell’ambasciatore Pompei e di don Clemente Riva (che era stato con don Emilio Gandolfo parte importante di quella fase), feci pubblicare nel volume della Presidenza del Consiglio sulla revisione dei patti del ’29 edito nel 1984.
E’ Moro, quindi, il primo capo di un governo della Repubblica che, sollecitato anche da un importante documento della direzione del PCI del luglio 1974, confortato dall’appoggio del PRI garantito da Spadolini e da quello del PSI assicurato ufficialmente da Nenni con un articolo sull’«Avanti» del marzo ’75, inserisce nel programma di governo un riferimento alla politica ecclesiastica, dichiarando formalmente che, dopo il referendum, la riforma dei Patti era doverosa ed urgente. L’urgenza durò, comunque, altri dieci lunghi anni che videro anche la tragica scomparsa del leader democristiano che, fin dalla Costituente, era stato uno dei politici più sensibili alle problematiche giuridico-religiose.
Si sono moltiplicate dal 1984 le intese con le confessioni di minoranza (dopo le prime sei ne sono state firmate dal Presidente Prodi altre sei) e il Parlamento ha affrontato nelle ultime due legislature il problema di una legge organica di attuazione della Costituzione in materia di libertà religiosa. Questi, quindi, i capisaldi sui quali costruire il diritto alla differenza religiosa e impostare una soluzione positiva della questione islamica, con pertinenza costituzionale e consapevolezza politica. Al di là di lodevoli progetti assembleari (consulte, commissioni etc.) gestiti dalle pubbliche autorità – che rischierebbero di violare sia il principio supremo di laicità/neutralità, sia quello di libera autodeterminazione delle confessioni che non consente alle autorità di scegliersi gli interlocutori – il meccanismo costituzionale del dialogo con le rappresentanze delle organizzazioni religiose islamiche, in vista di possibili convenzioni, è la strada maestra per gestire, in conformità alla Costituzione, i molti problemi che pone la crescente presenza di fedeli, italiani, comunitari o stranieri, dell’Islam. Non è un caso, del resto, se in sede di stipulazione di intesa con le comunità ebraiche (1989), ben diversamente da quanto accade oggi in Francia (è allo studio, dopo la legge 15 marzo 2004 sui simboli religiosi, anche un …codice di comportamento “laico” nelle Università), venne previsto che agli ebrei fosse consentito di giurare, nei processi, a capo coperto – nonostante il Codice prevedesse allora (art. 142) che dovesse essere “scoperto” – e che, nelle “strutture obbliganti”, venissero, per loro, rispettate le prescrizioni religiose alimentari.
La strada del pluralismo – che ovviamente riguarda anche le organizzazioni di atei (si pensi ai reparti cimiteriali) – deve essere percorsa fino in fondo. Solo così il principio supremo di laicità, definito dalla Corte costituzionale, potrà produrre tutti i suoi effetti migliori e concreti.
L’ Accordo concordatario in vigore (1984) adeguò il Patto del ’29 anche alle trasformazioni profonde della società italiana testimoniate, oltre che dalla forte diminuzione della pratica religiosa e del numero dei chierici, dai risultati negativi dei referendum abrogativi delle leggi sul divorzio e sull’aborto (1974, 1981), rendendo, tra l’altro, facoltativa l’ora di religione a scuola, eliminando il principio della religione di Stato e i controlli sulle nomine ecclesiastiche, riformando tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici e introducendo un sistema di finanziamento su base volontaria da parte dei cittadini (poi esteso ad altre confessioni religiose attraverso specifiche intese), articolato su due principali livelli: il cosiddetto “8 per mille” dell’IRPEF – che i contribuenti possono liberamente destinare allo Stato, alla Chiesa cattolica e ad alcune altre religioni ad esso collegate ai termini dell.’ art. 8, comma 3, Cost. – e le offerte liberali fino a mille euro per la Chiesa ed altre confessioni che possono essere dedotte dal reddito in sede di dichiarazione annuale. Si tenga conto che il principio di laicità e il principio delle relazioni “negoziate” con tutte le religioni i cui statuti siano conformi alle leggi, per la loro portata generale e la loro intrinseca flessibilità di applicazione hanno consentito alla Costituzione – che sotto questo profilo non può in alcun modo essere modificata – di affrontare agevolmente il cambiamento del paesaggio religioso italiano, oggi profondamente diverso, per le molte nuove presenze confessionali, da quello rispetto al quale i costituenti definirono il modello costituzionale delle libertà di religione individuali e collettive.
Tornando al Concordato del quale oggi si celebra il primo quarto di secolo, va ammesso che l’Accordo del 1984 concluso con quasi quarant’anni di ritardo per adeguare i Patti Lateranensi alla Costituzione della Repubblica, non poteva non riflettere gli orientamenti diversi dei molti governi che vi si erano impegnati e le contraddizioni che avevano segnato il lunghissimo procedimento di revisione iniziato nel 1967. Anche le intese con le confessioni diverse dalla cattolica, inaugurate 25 anni or sono con quella valdese, arrivarono con altrettanto ritardo e furono, ma ingiustamente, accusate di avere un “vizio di origine” che ne faceva non un vero strumento del pluralismo costituzionale, ma una sorta di “concordatini” riparatori delle discriminazioni precedenti e della stessa diversificazione statutaria tra religione cattolica e altri culti. Se si analizzano, infatti, i contenuti di accordi e intese del 1984 (e seguenti) è facile criticare alcune clausole o i sedimenti normativi rimasti, ma si deve tener conto del sistema di finanziamento delle religioni che rappresentò la vera novità del ricostruito regime dei rapporti Stato-confessioni, e che fece anche scoprire ai cittadini-contribuenti l’esistenza di altre religioni, cristiane o non, citate non dall’enciclopedia, ma dalla modulistica IRPEF. In realtà il vero punto di arrivo segnato da quelle convenzioni fu una sorta di pacificazione nazionale con la società religiosa: con il Concordato si chiudevano le ferite apertesi con il divorzio e con l’aborto, confermati dai referendum, mentre il Vaticano di Giovanni Paolo II accettava di patteggiare con un Italia ben diversa da quella del 1929 e del 1948, in nome di una invocata collaborazione per il bene di un Paese profondamente secolarizzato. Con l’intesa valdese il primo governo a guida socialista inaugurava la stagione degli accordi con le religioni di minoranza, sanando il vulnus inferto alla libertà religiosa dal permanere della legislazione discriminatoria fascista e conferendo loro una rilevanza giuridica, sociale e culturale quale mai avevano ottenuto dopo l’unificazione sabauda dello Stato. Il vastissimo consenso parlamentare confortò l’importanza di quelle scelte ed aprì la strada ad un rapporto più libero tra la DC e le altre forze politiche. Successivamente la “deconcordatarizzazione” di molte materie; la sempre più vasta utilizzazione della “sussidiarietà orizzontale” anche nel rapporto con le istituzioni religiose interessate a gestire tutta una serie di attività aventi fini pubblici, ma che lo Stato intende lasciare o condividere con le formazioni sociali private nel quadro del diritto comune; l’espandersi delle convenzioni tra regioni ed enti religiosi anche al di fuori delle “materie ecclesiastiche”, hanno finito per rendere, nel corso del ventennio, meno centrale e meno critico tutto il sistema “speciale” concordato/intese. Ne sono usciti rafforzati il disegno costituzionale delle libertà e il pluralismo religioso che, grazie alle nuove presenze confessionali, soprattutto islamiche e ortodosse, garantite anche da regole internazionali e comunitarie, si è rivelato la vera posta in gioco di un’Italia sempre meno monoculturale. Il sistema di finanziamento del 1984 (il cosiddetto 8 per mille) finisce, così, per diventare la valvola di sicurezza per tutti i culti, mentre ha sicuramente contribuito ad un rafforzamento economico senza precedenti della chiesa italiana: il gettito della quota CEI è passato, anche grazie al riparto delle scelte non espresse e ai conguagli, dai 210 milioni di euro del 1990 ai circa mille milioni del 2001 anche se, in ultima analisi i contribuenti che scelgono la chiesa sono circa il 33 per cento (poco più dei praticanti), mentre è del tutto deludente il numero delle “offerte liberali” deducibili. Il cambiamento sociale ha poi disinnescato una delle mine pericolose del sistema concordatario il riconoscimento delle nullità matrimoniali stabilite dai tribunali ecclesiastici. Il forte aumento di separazioni e divorzi, l’alto numero delle unioni di fatto (circa 600.000) il sorpasso in alcune grandi città dei matrimoni in chiesa da parte di quelli civili, lasciano, ormai, le polemiche agli ultimi mohicani delle cause rotali.
Non mancano i problemi ancora da risolvere (assistenza spirituale, titoli di studio ecclesiastici, segreto di ufficio dei ministri di culto etc.) e gli elementi di disturbo (scuole confessionali nel sistema nazionale di istruzione, ruolo improprio per i docenti “obbligatori” dell’ora di religione “facoltativa” etc.) che potrebbero rendere meno agevole il cammino ancora da compiere. Ma l’atmosfera costruttiva e collaborativa di questi 20 anni (si pensi solo al settore beni culturali) consente di essere ottimisti, soprattutto quando si constata che il giornale dell’episcopato, «Avvenire» ha affermato, che dopo il 1984 , l’Italia è diventata “un esempio di laicità per l’Europa”.
Per concludere, va osservato che, in un quadro valutativo degli accordi del 1984 a 25 anni dalla loro firma, non si può dimenticare che agli effetti diretti sul piano delle relazioni Stato-Chiesa, devono essere aggiunte almeno due importanti conseguenze politiche ed istituzionali indirette.
Tra i primi ricorderei almeno l’accettazione da parte ecclesiastica del principio costituzionale di separazione degli ordini, la formale abrogazione del principio ottocentesco della religione dello Stato, la fine dell’ora di religione obbligatoria, il sistema nuovo e innovativo di sostentamento del clero, la valorizzazione della CEI e delle Regioni, con le loro rispettive competenze, come interlocutori della società civile e della società religiosa, la chiusura delle ferite provocate rispettivamente dalla legge sul divorzio e dalla successiva battaglia cattolica contro di essa che si era conclusa con l’inaspettata sconfitta degli antidivorzisti. Tra le seconde, quelle indirette, l’apertura della strada verso le intese con i culti diversi dal cattolico che le attendevano da quasi mezzo secolo e l’enucleazione, da parte della Corte costituzionale, del principio supremo di laicità dello Stato, proprio intervenendo a proposito dell’ora di religione cattolica nelle scuole, che, con scarsa lungimiranza, si era tentato di trasformare da materia facoltativa extracurriculare in materia opzionale, inevitabilmente curriculare per tutti.
Non sono poche e talvolta sono quasi quotidiane, in questo inizio di secolo, le polemiche tra autorità religiose, esponenti politici e cariche dello Stato: spesso si tratta solo di pretesti per far sentire la propria voce, liberamente esprimibile in democrazia, su qualsiasi argomento senza alzare i toni; talvolta si alzano, invece, i toni per coprire incertezze e difficoltà nella comprensione del sensibile mutamento sociale in corso. Si tenga conto però, della profonda differenza della situazione italiana rispetto a quella, degli (spesso invocati) e definiti da Benedetto XVI “esempio di sana laicità”, Stati Uniti d’America, dove, come ha scritto di recente Tiziano Bonazzi («Reset», gennaio-febbraio 2009), non solo il «protestantesimo fu determinante per la costruzione della nazione» e vide «nella lotta per la libertà…una conseguenza della libertà cristiana che nutriva e sorreggeva la libertà politica», ma dove anche la funzione della «separazione Stato-Chiesa… è stata quella soltanto di impedire che una singola denominazione, un singolo credo si… impadronisse» della spesa pubblica. In Italia, invece, la nazione è nata proprio contro il papato cattolico che aveva osteggiato, con tutti i mezzi diplomatici e spirituali a sua disposizione, lo Stato unitario, il quale fu costretto ad estromettere la religione “monopolista” dalla sfera pubblica e solo dopo la Grande guerra poté prendere in considerazione il problema del ruolo dei cattolici in politica e solo dopo l’avvento del fascismo riuscì a concludere, grazie al compromesso concordatario, un armistizio tra le due istituzioni, lo Stato e la Chiesa, che si contendevano (e continuano in parte a contendersi) “la sovranità…nella stessa comunità”. Ci vorrà, poi, il patto costituzionale per stabilire la separazione degli “ordini” senza definire i confini delle rispettive competenze, ma implicitamente stabilendo il rispetto della par condicio per quanto riguarda il diritto di esprimere opinioni, positive o critiche, sulle materie di specifico e manifesto interesse di una delle due “Parti”. Solo ritrovando lo spirito che portò a superare i contrasti sul divorzio e sull’aborto e che consentì, 25 anni fa, di firmare l’Accordo di riforma dei Patti del 1929, recuperando la dimensione costituzionale del principio supremo di laicità e dei diritti fondamentali di libertà, ma anche quella “conciliare” del Vaticano II, sarà possibile, pertanto, riprendere un produttivo dialogo tra società religiosa e società civile (molto mutate nel corso dei decenni post-costituzionali) con risultanze altrettanto politicamente e religiosamente positive.

TAVOLA ROTONDA


Gennaro ACQUAVIVA

Vorrei fare un ragionamento su quella che possiamo chiamare “provvidenzialità”: perché c’è pur stata la Provvidenza (altri potranno chiamarla casualità) anche nella vicenda che oggi ricordiamo soprattutto perché le cose camminano sulle gambe degli uomini, e non solo le idee ma anche la politica.
E’ presente qui tra noi, stamane, naturalmente benvenuto, il Presidente Franco Bile. Ebbene, pensando a lui mi è tornata alla mente San Fulgenzio, una piccola parrocchia di Monte Mario, a Roma, la cui frequentazione ci ha fatto conoscere ed anche diventare amici. In quel tempo, a metà degli anni Settanta, in quella Chiesa, la domenica mattina, un poco noto monsignore di Curia, Achille Silvestrini, svolgeva il suo ministero pastorale e diceva messa a mezzogiorno, proponendo anche delle bellissime idee nell’omelia. Di solito io frequentavo la messa delle undici, quella parrocchiale, ma a volte mi capitò di andarci poiché avevo perso quella precedente. Forse qualcuno disse a Silvestrini chi ero: un bravo figlio anche se ero un socialista che lavorava con Craxi; fatto sta che conobbi così, del tutto casualmente, l’uomo del Vaticano per il Concordato..
Fu in questa maniera (e come chiamarla se non Provvidenza?) che il partito anticlericale per antonomasia, quello che nel ’47 aveva votato contro l’articolo 7 - e con delle buone ragioni come abbiamo appena sentito – fu contattato ed in qualche maniera inserito allora nella trattativa informale che la Santa Sede ha costantemente utilizzato nelle materie che la interessavano.
A fine novembre del 1976, il direttore dell’epoca di «Civiltà cattolica» mi raggiunse per convocarmi, riservatissimamente quasi fossimo dei carbonari, ad un incontro a Villa Malta, una domenica pomeriggio, alla vigilia di un dibattito parlamentare che sembrava poter essere addirittura conclusivo nella lunga vita della riforma del Concordato. Quel giorno, padre Sorge, mi accolse con grande calore; ma don Achille era un po’ imbarazzato, come se non sapesse come comportarsi: forse perché era la prima volta che si trovava davanti qualcuno dei socialisti per dirgli come stavano le cose. In quell’anno, Craxi era appena diventato segretario del Partito, ma aveva già assunto una posizione favorevole alla revisione ed aveva incaricato un suo compagno, illustre professore di storia, laico specchiato e sufficientemente anticlericale, che si chiamava Gaetano Arfè, ad occuparsi della questione, a seguire cioè la trattativa ed anche ad intervenire alla Camera per i socialisti nel dibattito che si preannunciava; cosa che Gaetano fece da par suo con generale adesione.
Ma la vicenda di Bile non finisce qui. Come Silvestrini mi raccontò in seguito, a vicenda conclusa, fu proprio il confronto non del tutto pacifico tra le sentenze di questo magistrato e la posizione della Santa Sede a modificare anche il tema del matrimonio concordatario: insomma, come ha continuato sempre a dirci Livio Labor, «Dio scrive dritto su righe storte».
Anche il ruolo decisivo che fu di Craxi si colloca su medesimo crinale. Come ci ha appena detto Margiotta, l’argomento della modifica del Concordato del 1929 era andata molto a rilento nel confronto parlamentare, anche se alcuni dei governi che avevano preceduto Craxi erano in possesso di buone carte nella trattativa e potevano anche far valere una costante disponibilità della controparte, e cioè della Santa Sede, per un accordo positivo. Il caso di Andreotti è tipico: nel 1976 è alla guida di una maggioranza “bulgara”; ha le migliori entrature possibili nei confronti dei piani alti vaticani; gode di un ottimo rapporto con i comunisti, che per altro erano ultrafavorevoli a chiudere questa pendenza; anche l’intervento di Arfè che prima ho ricordato lo facilita nella via della conclusione positiva della trattativa. Eppure non riuscì a concludere.
Anche il caso di Spadolini è abbastanza simile. Il leader repubblicano, come potete immaginare, era pronto, deciso, desideroso; per di più era appassionatamente vicino al tema, su cui aveva scritto libri e raccolto testi che lo classificavano tra i protagonisti; era un esponente di spicco del mondo laico e il suo protagonismo lo spingeva, come era giusto e legittimo, a concludere una vicenda ormai annosa. Certo il sistema politico italiano, agli inizi degli anni ’80, era fragile e insicuro, non molto diverso da quello che ci delizia al presente; ma il fuoco di una vicenda imprevista e imprevedibile, quella dello IOR, lo bloccò.
Poi arrivò Craxi. Certo egli era il rappresentante di quel partito che non solo aveva votato contro l’articolo 7 ma era stato per tutto il dopogurerra il più determinato a combattere le “ingerenze” vaticane; ma anche questo passò in secondo piano rispetto ad una caratteristica decisiva che egli sembrava possedere in sommo grado, una caratteristica che, come la storia ha dimostrato, pur se vera era in parte mitizzata: la sua determinazione, la sua capacità di decidere. Tutti sapevano o almeno immaginavano o forse temevano che quest’uomo, quando si trovava davanti un problema decideva; di più: avevano potuto constatare che egli era possessore di una abilità politica capace di preparare la decisione, era in grado di costruire su di essa un consenso solido tale da permanere nel tempo e giungere fino al voto.
Queste caratteristiche, sommate alla tradizione storica del Partito socialista, non erano sicuramente un buon viatico per le idee della Chiesa cattolica in Italia e forse neppure per la Santa Sede. Ma essi erano alle prese con questo problema da troppo tempo per non essere spinte a cogliere l’occasione al volo; anzi possiamo oggi riconoscere che seppero utilizzare i frutti del dominio di Craxi fino in fondo.
Voglio infine ricordare che Craxi partiva da una idea assai precisa e ferma: era convinto che il Cristianesimo, il fatto religioso, la Chiesa che era in Italia rappresentavano un fatto di popolo, non costituivano semplicemente una posizione di nicchia; per questo riteneva che la normativa e la legislazione che le interessavano e le tutelavano erano un atto dovuto, naturalmente da collocare all’interno degli strumenti tradizionali della democrazia parlamentare. Questo spiega sia l’8 per mille, che costruimmo perché mossi dalla sua direttiva «non affamate i preti!»; sia l’attacco che si era sentito obbligato ad avanzare, ad un Papa come Wojtyla, nella solennità dell’Aula della Camera, quando lo ritenne un “comiziante” per come si andava ad esprimere nel corso della campagna referendaria sulla legge dell’aborto.
C’era quindi in Craxi la convinzione che il Cristianesimo fosse un fatto di popolo, capace di parlare al Paese e di esserne elemento coagulante. Detto in termini semplici: era convinto che senza i preti l’Italia non reggeva; ed io penso che ancora oggi dovremmo dargli credito.
Come dicevo, questa sua posizione spiega anche la legge sul finanziamento e sui beni ecclesiastici, che rappresenta il vero punto di cambiamento e di innovazione nella vicenda concordataria, giacché è stato in grado di andare oltre il Concordato. Torna ancora la “provvidenzialità” nella presenza, ad esempio, del socialista Tremonti (all’epoca un professorino di scienza delle finanze a Pavia, amico di Reviglio) nella commissione che elaborò quelle norme. Probabilmente, se non ci fosse stato Tremonti in quella commissione, non ci sarebbe stata la completezza del disegno riformatore, fiscale e finanziario, contenuta in quella normativa e forse sarebbe risultato monco il suo maggiore risultato “politico”: l’affermarsi di una Conferenza Episcopale Italiana autonoma, ben finanziata e fortemente organizzata.
Un po’ paradossalmente potremmo concludere che se non ci fossero stati Craxi ed i suoi soci, capaci di montare questa filiera, il cardinale Ruini non sarebbe stato in grado di fare quello che ha fatto nei suoi venti anni di governo e forse avrebbe continuato a fare il Vescovo ausiliario di Reggio Emilia, dando certamente meno problemi al laicismo italiano ed ai suoi protagonisti.

Carlo CARDIA

Premessa
Vorrei soffermarmi, in apertura, sul contesto storico della riforma del Concordato nel 1984 e sulle prospettive che la revisione ha aperto nel nostro e in altri ordinamenti. Vorrei parlare, cioè, del Concordato italiano del 1984 in un orizzonte riformatore più ampio rispetto al testo dell’accordo, in relazione all’ordinamento italiano e all’evoluzione del diritto europeo. In altri termini, vorrei riprendere la lezione di Francesco Ruffini che già nell’Ottocento ha sprovincializzato la cultura italiana introducendo e facendo conoscere le grandi acquisizioni della laicità in diversi Paesi, e che per primo a livello scientifico (dopo Alexis de Tocqueville) chiarì la differenza tra il separatismo amico delle Chiese degli Stati Uniti d’America e il separatismo ostile alle Chiese e alla religione della Francia illuminista.
La riforma del nostro Concordato non è un atto isolato, che vive di forza propria, ma è stato parte di un processo riformatore che ha portato in Italia all’attuazione degli articoli 7 e 8 della Costituzione con la stipulazione di numerose Intese con altre confessioni religiose (6 sono operative da anni, altre da lungo tempo di essere approvate in sede parlamentare). La sottoscrizione dell’Intesa con la Tavola Valdese, avvenuta pochi giorni dopo quella del Concordato, e l’accordo con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, hanno dato al pluralismo confessionale italiano un sapore nuovo, un orizzonte più ampio e maturo, anche se oggi dobbiamo segnalarne anche limiti e insufficienze.
Ma il nuovo Concordato italiano non è solo neanche in Europa. Esso è stato tra i primi accordi (secondo soltanto al Concordato spagnolo del 1979) revisionati in diversi Paesi, perché gli hanno fatto seguito le riforme (parziali o totali) dei concordati, portoghese, austriaco, gli accordi e le Intese dei Lander tedeschi, rivisti o scritti per armonizzarne i contenuti con i principi costituzionali dei rispettivi ordinamenti. L’orizzonte riformatore è ancora più ampio, è arricchito dal fatto che, con la caduta dei regimi dell’est europeo, lo strumento concordatario è stato adottato da numerosi altri Paesi dagli anni Novanta sino ad oggi, ed è attualmente presente in oltre la metà degli ordinamenti europei, dal punto di vista del numero degli Stati e della popolazione del vecchio continente. Dove non c’è concordato, o intesa con altre confessioni religiose, le nuove Costituzioni e le leggi fondamentali sulla libertà di coscienza hanno cambiato il volto di altri ordinamenti, come quello russo, romeno, bulgaro, verso una sempre più limpida laicità dello Stato. Per questa ragione credo sia utile una riflessione su questo grande sommovimento realizzatosi negli ultimi venti anni, che sta portando verso una sorta di diritto comune europeo, e ha posto le basi per una legislazione ecclesiastica abbastanza omogenea quasi ovunque in Europa.
1. Natura e genesi diverse dei concordati europei
Penso sia utile iniziare da questo secondo aspetto, partendo da una constatazione. La genesi dei concordati occidentali e quella dei nuovi concordati del centro ed est Europa è diversa, come diverso è il loro retroterra sociale e culturale. Nel primo caso, cioè per i nostri concordati, la riforma normativa ha avuto il compito, se posso dire così, di ri-conciliare la Chiesa cattolica con lo Stato e la società, e di fare i conti con la memoria storica legata alle compromissioni con lo Stato autoritario, cercando di liberarsi da legittime diffidenze e preoccupazioni presenti in settori della società e della cultura laica. Per certi versi opposta la genesi dei concordati dell’est europeo, perché la loro legittimazione è quasi ovunque fondata sul riconoscimento dell’impegno della Chiesa, e delle Chiese, nella resistenza al totalitarismo, per l’affermazione dei diritti umani. La memoria storica dei Paesi ex comunisti, legata alla sconfitta dei regimi dittatoriali, ha percepito le Chiese come soggetti attivi della propria rinascita nazionale e democratica.
Se vogliamo usare una formula sintetica, nei Paesi occidentali la Chiesa ha dovuto in qualche misura farsi perdonare vecchie compromissioni temporaliste, nei Paesi dell’est le Chiese si sono presentate, e sono state accolte, come vittime, e insieme forze di resistenza, dei regimi non democratici. Della diversa genesi dei concordati si trovano tracce abbondanti nello stile (sobrio quello occidentale, più enfatizzato quello di molti concordati dell’Europa orientale), e nei contenuti dei diversi accordi, abbondanti, come è possibile immaginare, nei concordati polacco, croato e slovacco, più limitati in altri a cominciare dal nostro. Mi limito soltanto ad alcune citazioni. Particolarmente significativa è l’apertura del Concordato polacco che richiama «la missione della Chiesa cattolica, il ruolo che la svolto nella storia millenaria dello Stato polacco, nonché il significato del pontificato di Sua Santità Giovanni Paolo II per la storia contemporanea della Polonia». Ma anche il Concordato con la Lettonia riconosce «il positivo contributo offerto dalla Chiesa cattolica allo sviluppo religioso e morale, alla riabilitazione e reintegrazione sociale della Repubblica di Lettonia», e quello con la Lituania sottolinea «lo speciale ruolo della Chiesa cattolica, soprattutto nel consolidamento dei valori morali della nazione della Lituania, così come il suo storico ed attuale contributo ai settori sociali, culturali e dell’istruzione». Ancor più impegnativa la menzione con la Slovacchia dove ci si richiama «alla missione autorevole della Chiesa cattolica nella storia della Slovacchia, nonché al suo ruolo attuale in campo sociale, culturale e pedagogico».
2. Principi comuni dei concordati e della legislazione ecclesiastica in Europa
Tuttavia, pur in queste differenze tra i diversi tipi di Concordato, se guardiamo alla sostanza delle relazioni ecclesiastiche, cioè ai principali e classici temi dei rapporti tra Stato e Chiese, possiamo dire che si sta realizzando in Europa un processo riformatore molto forte verso una concezione comune della laicità dello Stato, una legislazione ecclesiastica che tende ad assomigliarsi negli aspetti essenziali in Paesi molto diversi per storia e tradizione, abbiano o non abbiano un concordato, siano cattolici o ortodossi, o protestanti.
Non voglio dire con questo che tutto si è svolto in modo indolore, o che ciò che è stato fatto sia positivo e omogeneo. Basterà ricordare che qualche Concordato non è stato approvato, o è stato approvato con molto ritardo (nella Repubblica Ceca l’accordo con la Santa Sede non è passato in Parlamento per un voto, e nella stessa Polonia sono trascorsi lunghi anni per l’approvazione del Concordato), che la legge sulla libertà religiosa in Russia ha subito assestamenti e modificazioni non secondarie, che in altri Paesi come la Bulgaria diversi nodi delle relazioni ecclesiastiche devono essere ancora risolti. Per non parlare dei numerosi problemi che tanti Paesi che non hanno ancora riformato la propria legislazione ecclesiastica devono ancora risolvere, e che sono oggetto di numerose attenzioni critiche da parte della Corte di Strasburgo.
Il panorama è ancora frastagliato e complicato. Eppure, rispetto ad un passato di costrizioni e di condizionamenti di diverso genere, e dietro normative ancora differenziate si intravede una trama unitaria di notevole consistenza, per la quale in quasi tutti i Paesi europei la libertà religiosa è garantita da Costituzioni democratiche e da leggi fondamentali sulla libertà di coscienza, si intravedono dei fili conduttori capaci di dar vita in futuro ad una sistema europeo di rapporti tra Stato e Chiese. Un po’ dovunque sono cadute le formule che riconoscevano il confessionismo di Stato (esauritosi formalmente in Italia nel 1984), mentre la laicità dello Stato, la reciproca autonomia e indipendenza dello Stato e delle confessioni religiose, sono garantite con formule diverse ma molto simili nella sostanza. Questa libertà si è andata estendendo all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, garantito quasi in tutti i Paesi europei alle diverse confessioni ma lasciato alla scelta volontaria degli studenti e delle loro famiglie. Nei tempi più recenti questa acquisizione di laicità è stata introdotta per l’insegnamento dell’ortodossia anche in Romania e in Russia. Altrettanto si può dire per la regolamentazione dei matrimonio religioso riconosciuto quasi dappertutto come rilevante civilmente. Un principio che sta diventando un cardine del diritto comune europeo
è il principio di sussidiarietà, per il quale il rapporto tra strutture private e strutture pubbliche si sta assestando ad un livello di reciproca integrazione, pur nell’insostituibile funzione primaria dell’intervento statale a garanzia dell’eguaglianza tra i cittadini.
Di particolare interesse è il fatto che anche nel Nord Europa si è aperta la stagione riformatrice per far venir meno le antiche formule delle Chiese territoriali di Stato, legate alle dinastie nazionali. La riforma si è realizzata in Svezia, è in corso di attuazione in Norvegia, se ne parla in Gran Bretagna dove ancora il re è formalmente a capo della Chiesa anglicana. Anche in Francia le relazioni ecclesiastiche non hanno più nulla a che vedere con il passato, se si pensa che la presenza dell’Islam ha di fatto aperto una stagione di rapporti bilaterali che inevitabilmente si sta estendendo ad altre confessioni (è di qualche settimana fa la stipulazione di un accordo tra Governo francese e Santa Sede in materia di titoli di studio), inaugurando quella che il Presidente Sarkozy ha chiamato una nuova stagione di rapporti con le Chiese.
Vorrei ricordare, tra l’altro, che queste riforme delle legislazioni ecclesiastiche si sono spesso intrecciate e incoraggiate a vicenda. Tra Paesi che hanno antiche consuetudini di rapporti, come è avvenuto tra Italia e Spagna, e Portogallo, ma anche con Paesi tra loro lontani per tradizioni e per scarse frequentazioni. Così è avvenuto negli scambi frequentissimi realizzatisi tra Italia e Polonia, e tra Italia e Ungheria; ma anche la Chiesa luterana di Svezia ha mandato suoi rappresentanti in Italia a studiare la nostra riforma dei rapporti finanziari tra Stato e Chiesa nel momento stesso in cui era all’orizzonte il venir meno della Chiesa di Stato, e via di seguito. Dobbiamo augurarci che questo grande processo riformatore vada avanti, si liberi di tante scorie, residui del passato, anche di limiti presenti nei nuovi testi legislativi, concordatari o meno. Un ruolo fondamentale può svolgerlo la Corte di Strasburgo nel promuove il rispetto della libertà religiosa e dei diritti dei cittadini in qualunque Paese, a prescindere dal sistema normativo adottato dall’ordinamento. La Corte di Strasburgo ad esempio è intervenuta con una sentenza critica anche nei confronti dell’Italia per una aporia concordataria che sarebbe bene un giorno superare ed eliminare. Per tutte queste ragioni la riforma del Concordato non può essere riguardato come un qualcosa di isolato, o di immobile, ma come un tassello di un grande mosaico riformatore che si va estendendo ad altri ordinamenti europei, e come tale può essere valutato, criticato, certamente migliorato.
3. Una riforma incompiuta
Vorrei ora soffermarmi sul ruolo che la riforma del Concordato ha svolto nell’ordinamento italiano nel suo complesso, dal momento che, insieme all’Intesa con la Tavola Valdese firmata il 21 febbraio 1984 e all’Intesa con l’Unione delle Comunità Ebraiche, ha aperto una stagione riformatrice che ha conosciuto molte tappe, e attende ancora il suo compimento. Ricordavo in precedenza che dopo il 1984 sono state stipulate molte altre Intese, alcune operative da molti anni, altre all’esame del Parlamento ma sino ad oggi senza esito.
Pressoché tutti i contenuti del nuovo concordato trovano riscontro nelle Intese in un sistema quasi a raggiera che irradia le principali scelte di politica ecclesiastica e le estende alle altre confessioni religiose. E questa irradiazione ci suggerisce qualche considerazione di rilievo. In primo luogo, dobbiamo dirlo francamente, siamo di fronte ad una riforma incompiuta. Non solo e non tanto perché mancano all’appello numerose Intese. Quanto, piuttosto, perché non è mai stato approvato il disegno di legge sulla libertà religiosa che dovrebbe costituire come una cornice giuridica nella quale Intese e accordi particolari si incastonano, e che riconosca poi con certezza e incisività diritti e prerogative eguali a tutte le confessioni, abbiamo o meno l’Intesa. C’è un dato singolare che va ricordato. In quasi tutti i Paesi dell’est europeo, oltre alle nuove Costituzioni democratiche, sono state approvate leggi fondamentali sulla libertà religiosa, ma in Italia è tuttora vigente (seppur depurata da alcune norme contrastanti con la Costituzione) la Legge sui culti ammessi del 1929. Diciamo la verità, non è qualcosa di cui possiamo andare orgogliosi.
In secondo luogo, io penso che si dovrebbe guardare al nuovo concordato e alla intese con spirito laico e riformatore. Nel senso che a volte, invece di alimentare polemiche che possono essere senza vie d’uscita, sarebbe meglio proporre modifiche, di un punto o dell’altro quando lo si ritenga giusto e opportuno, e sottoporle alla parte confessionale interessata. Un accordo che si adegua ai tempi è meglio di un accordo che invecchia per una malintesa volontà conservativa. Ed un accordo riformato, oltre ad essere confermato, è da preferire ad uno che si consuma lentamente.
Infine, l’esperienza fatta con la revisione del 1984 e le riforme successive è divenuta di grande attualità per affrontare il nuovo pluralismo religioso che si va dispiegando in Italia e in Europa, anche attraverso il fenomeno della multiculturalità. Oggi in Italia abbiamo un pluralismo religioso diverso rispetto al passato, nel quale sono presenti minoranze confessionali religiose molto consistenti, come quella ortodossa e quella islamica. Però, stiamo constatando che il nostro sistema normativo è certamente capace di accogliere la diversità senza alcun trauma, ma è anche complesso e farraginoso perché non consente a tutti di conseguire una vera eguaglianza di diritti e di condizione giuridica. Basti pensare che per riconoscere una confessione religiosa occorrono in media due-tre anni, e per approvare una intesa ne occorrono almeno altri cinque. Ciò può spingere anche inconsapevolmente a non far nulla, e questo sarebbe un grave errore, oppure a concepire le trasformazioni normative in questo settore in tempi biblici. Non è giusto, né realistico, che minoranze religiose rappresentate da circa un milione di persone ciascuna vivano in una condizione di fatto nella quale non si conosce e non si sa esattamente quali siano le loro strutture, le loro attività, le loro esigenze.
Dobbiamo riflettere su questo punto, perché le garanzie esistenti per le confessioni di fatto, se non sono mai idonee per assicurare libertà ed eguaglianza vere ad una confessione, ancor meno lo sono per confessioni che hanno decine o centinaia di luoghi di culto, numerose strutture e raggruppamenti comunitari. Di più, non far nulla per le c.d. nuove religioni (nuove per noi, naturalmente, non in sé) vorrebbe dire affermare una volontà protezionistica per le nostre confessioni tradizionali con una chiusura che sarebbe comunque. Per dirla ancor più chiaramente, una libertà religiosa che non sia eguale per tutti diventa privilegio per alcuni motivo di avvilimento (o discriminazione) per altri. Il quadro costituzionale è del tutto chiaro sul punto perché prevede che una confessione religiosa si organizzi secondo propri statuti purché non contrastino con i principi dell’ordinamento giuridico e possa poi stipulare un’Intesa con lo Stato. C’è quindi una strada praticabile per tutte le confessioni, compresa quella islamica, di cui si parla tanto, e che però oggi si trova giuridicamente nella stessa identica condizione di dieci o venti anni addietro, quando cominciò a radicarsi in Italia.
4. L’ Islam in Italia
A questo problema vorrei dedicare una considerazione conclusiva. Ci si lamenta spesso, a volte con qualche ragione, che dell’Islam noi conosciamo poco, che le moschee sono molte ma si trovano allocate in luoghi non adatti, che in esse possono svolgersi attività non sempre limpide, che gli imam parlano in lingua diversa da quella italiana. E ci si lamenta che le comunità musulmane in Italia, come d’altronde in altri Paesi, sono a rischio di infiltrazione integraliste, o fondamentaliste. Le cose, in realtà, sono molto più complicate ma io voglio dare per fondate tutte queste preoccupazioni, per porre una domanda molto importante. Noi cosa stiamo facendo? Stiamo facendo il possibile per agevolare la regolarizzazione dell’Islam, per favorire le comunità musulmane che vivono e vogliono vivere la propria religione in piena legalità, perché anche l’Islam come altre confessioni religiose possa raggiungere i traguardi del riconoscimento giuridico e, in prospettiva, di una Intesa con lo Stato?
Io credo di no, e credo di no anche per ragioni legate all’esperienza concreta fatta in questi ultimi anni insieme a molti rappresentanti musulmani. In poco meno di due anni è stata approvata e sottoscritta dalle organizzazioni musulmane moderate la Carta dei valori che si sofferma sui problemi dell’immigrazione ed in particolare sulle loro esigenze religiose. Poco meno di un anno fa i maggiori rappresentanti dell’Islam moderato si sono riuniti, ed hanno approvato una solenne Dichiarazione di Intenti, unica nel panorama europeo per incisività e limpidezza, con la quale essi affermano di voler «garantire la propria autonomia da ogni ingerenza di centrali straniere, rifiutare ogni collegamento con organizzazioni integraliste e marcare un confine netto nei confronti di ogni tipo di fondamentalismo». E con la quale dichiarano di voler risolvere sia il problema delle moschee e della loro trasparenza di gestione, sia la questione degli imam perché svolgano le proprie funzioni in sintonia con l’ordinamento italiano.
Oggi dobbiamo chiederci se lo Stato e le istituzioni pubbliche hanno fatto il possibile per venire incontro a questi propositi, per agevolare il processo di unificazione dei musulmani moderati in vista di un riconoscimento giuridico della loro aggregazione. Io credo di no, e credo che dobbiamo partire da un presupposto che condiziona tutto il resto. E’ interesse dello Stato, di uno Stato democratico e pluralista, che l’Islam viva e agisca alla luce del sole, che venga incoraggiato verso una piena regolarizzazione, perché solo nella regolarizzazione, e nel rispetto dei diritti di tutti gli immigrati d’altronde, si risolvono molti problemi e possono allontanarsi anche quelle paure che sono invece destinate ad aumentare se noi stessi facciamo sì che l’Islam resti in una specie di zona grigia. Una confessione che vive in un cono d’ombra, all’interno del quale si vede e non si vede, non è una confessione libera, e non è nemmeno rassicurante. Anche perché le due cose vanno insieme.
Mi sono soffermato su questo aspetto perché credo che non sia affatto lontano dalla riforma del Concordato. Se si vuole onorare lo spirito riformatore del 1984, ci si deve impegnare perché anche le nuove religioni trovino in Italia quella condizione giuridica di libertà e di riconoscimento di diritti che garantisca il rispetto del pluralismo e lo sviluppo del dialogo interreligioso. In caso contrario, andremmo verso una legislazione ecclesiastica protezionistica verso le nostre Chiesa tradizionali, ma avara e matrigna per altre religioni e confessioni. E questo sarebbe contrario proprio allo spirito con il quale si dette l’avvio nel 1984 alla riforma del Concordato e alla stipulazione delle prime Intese. Per queste ragioni desidero ricordare in conclusione Arturo Carlo Jemolo, il quale diceva che la libertà religiosa e la laicità dello Stato costituiscono valori che vanno preservati e coltivati costantemente, perché possono essere sempre in pericolo, per impulsi confessionisti o tentazioni giurisdizionaliste e antireligiose. Anch’io penso che la dialettica tra società civile e società religiosa costituisce per un ordinamento democratico un bene prezioso, che ogni parte deve rispettare e alimentare continuamente. La laicità non si nutre solo di norme, che naturalmente sono essenziali e imprescindibili, ma è il frutto di un clima, di una attenzione reciproca, nella quale tutti i soggetti devono saper misurare sé stessi e la propria capacità di intervento, e in primo luogo riconoscere i diritti di tutti.

Gianfranco SPADACCIA

Ringrazio il Presidente Fini e il Presidente Bertinotti per aver voluto che fosse presente in questa circostanza anche una voce dissonante da quella degli autorevoli interlocutori di questa mattina. Una voce anticoncordataria, sulla linea che va da Salvemini a Ernesto Rossi, che è stata espressa da Benedetto Croce sia nel 1929 sia di fronte all’articolo 7.
Salvo poche altre voci critiche, fummo quasi gli unici in quelle Aule parlamentari nell’84 a esprimere la nostra opposizione al Concordato. Tra quelle voci critiche voglio ricordare fra le altre quella di un cattolico, Corrado Guerzoni.
In quelle Aule parlamentari eravamo soli: la minoranza che rappresento – come la storia ha dimostrato – è stata capace di essere anticipatrice, interprete e rappresentante di orientamenti di maggioranza in questo Paese per oltre 40 anni.
La mia lettura dell’articolo 7 è profondamente diversa da quella del professor Margiotta Broglio. Allora proponemmo che si seguisse la strada maestra della revisione bilaterale del Trattato Lateranense, che dava alla Chiesa il ruolo di rappresentante della religione dello Stato. Per quanto riguardava invece i rapporti tra Chiesa italiana e Stato, ritenevamo che il regime dei nuovi rapporti dovesse essere concordato sotto la copertura costituzionale dell’articolo 8.
Credo che questa tesi possa trarre fondamento legittimamente da alcuni dei testi di dottrina, come quelli di Esposito e di Mortati, da alcune delle sentenze della Corte costituzionale, a cui fa riferimento Margiotta Broglio, ma anche e soprattutto dalle dichiarazioni di alcuni costituenti, quali Mortati, Moro e Dossetti.
Non so se abbia ragione o meno Michele Ainis nel sostenere che il secondo comma dell’articolo 7 è una norma transitoria, oltre che eccezionale, nelle intenzioni del costituente. Transitoria nel senso di essere in attesa di una soluzione diversa, di una diversa disciplina della revisione dei rapporti con la Santa Sede. Che sia una norma d’eccezione è chiaro e non contestabile: si tratta di un’eccezione rispetto alla regola dell’indipendenza e della sovranità sanzionata dal comma I e rispetto al principio fondamentale della libertà religiosa, regolato dagli articoli 3 e 7 e dagli articoli 19 e 20 della Costituzione.
Si è invece scelta un’altra strada: lasciare intatto quell’orribile trattato fascista e procedere alla revisione del Concordato sotto la copertura del comma II dell’articolo 7. Credo che questo sia avvenuto confermando da una parte una situazione di privilegio della Chiesa cattolica, dall’altra una situazione di discriminazione delle altre confessioni e delle altre convinzioni religiose dei cittadini italiani non credenti, ma anche di molti cattolici.
Ho sentito parlare qui di libertà religiosa. Mi ha colpito, in un saggio di Giorgio Sacerdoti che illustra e commenta l’intesa con la Comunità israelitica, il fatto che ogni volta che si parla di libertà religiosa si aggiunge sempre l’espressione “almeno formalmente”. A un certo punto poi non parla di privilegio, ma di supremazia della Chiesa cattolica.
Credo che queste – professor Margiotta Broglio, Gennaro, Cardia – siano intese difensive, rivolte a far deperire definitivamente la legge sui culti ammessi che, ancora dopo la caduta del Fascismo, costrinse a rivolgersi ai tribunali per difendere i propri diritti. Non è un caso che le Confessioni evangeliche, che oggi sono assenti, abbiano dato un’impronta separatista alle loro intese, almeno nella prima fase.
Volete dire che è un caso che manteniamo in vita il Trattato e che a 25 anni dalla revisione del Concordato non abbiamo ancora una legge fondamentale sulla libertà religiosa? È un caso o piuttosto un segno che si protrae nel tempo di quella supremazia stabilita dall’articolo 1 del Trattato sulla nuova situazione costituzionale della Repubblica italiana?
Sono contento che Cardia abbia fatto affiorare il problema, perché un problema esiste. Ritenete dunque che lo risolveremmo meglio con l’insegnamento religioso che abbiamo conservato?
Emilio Colombo, tu eri relatore di quel Concordato, ma non è stato preso in considerazione l’insegnamento della religione e delle religioni che noi proponevamo. Se così non fosse stato, oggi il problema sarebbe molto più semplice.
Volete dire che l’8 per mille aiuterà a risolvere i problemi dell’integrazione dell’Islam nel nostro Paese? Credo che dovreste guardare in faccia la realtà: la situazione non è questa. La mia impressione è che il Concordato non solo ha protratto quella situazione di privilegio, ma ha ulteriormente rafforzato i benefici: dall’8 per mille all’insegnamento religioso, all’extraterritorialità.
Gennaro Acquaviva ha accennato ad alcune vicende storiche. Un Concordato, come qualsiasi strumento giuridico, a mio avviso va giudicato nell’evolversi della situazione politica di un Paese, in un contesto storico e politico. Ebbene, nei primi 40 anni di storia della Repubblica, con la prevalenza del Partito democristiano, quel Concordato fascista è stato attuato e interpretato da una classe politica che si rifaceva – per dirla come Spadolini – all’idea di un Tevere più largo.
Tutto sommato – nonostante le cose che hai detto, Acquaviva – questo Paese non si tiene in piedi senza i preti. I preti sono un fatto molto importante. Quando mi battevo per la fame nel mondo, le porte di Giovanni Paolo II si aprivano anche agli anticlericali. Oggi, quando mi occupo degli immigrati o dei detenuti, incontro cappellani e associazioni di volontariato.
Anche la classe politica che ha stipulato il Concordato – quella di Bettino Craxi, Spadolini e Colombo – si ispirava all’idea del Tevere più largo, nonostante quel Concordato, secondo me, abbia diminuito gli obblighi della Chiesa. Non può esistere un Concordato senza le obbligazioni di una delle due parti.
Noi eravamo buoni profeti nel sostenere che l’articolo secondo il quale la Chiesa e lo Stato collaboravano per il bene del Paese conteneva i germi di un nuovo Stato etico o della pretesa di un nuovo Stato etico. Oggi la situazione è cambiata: non solo sono venuti meno la DC e il PCI ma anche il partito di Craxi e quello dei laici degli anni ’70 che hanno fatto il Concordato, e che fino alla metà degli anni ’80, all’interno del Governo, hanno rappresentato la sponda del movimento per le riforme laiche e dei diritti civili. Sono scomparsi la DC e il PCI, i due partiti dell’articolo 7, che io ho avversato per tre decenni: avevano un forte radicamento sociale che dava loro una propria forza e autonomia, un proprio senso dello Stato. Cosa ne è dei loro eredi? Partiti in perenne transizione che non riescono a dare al Paese, né da una parte né dall’altra, un credibile e stabile sbocco democratico.
Evidentemente questa situazione di debolezza porta ad appoggiarsi alla forza dell’istituzione ecclesiastica, alla forza della Chiesa. Con riguardo alla recente vicenda del caso Englaro, ad esempio, le prospettive che si aprono nel contesto di questi mutamenti politici sono abbastanza inquietanti per la laicità dello Stato. La laicità dello Stato è la convivenza di diverse convinzioni religiose ed etiche: se una di queste pretende di imporsi, la laicità viene meno, non esiste più.
D’altro canto, come argomentava Cardia, non si può imputare al Concordato la responsabilità delle forze politiche e delle maggioranze parlamentari. Non sono d’accordo: il Concordato non è neutrale e ha offerto alla Chiesa basi anche materiali. Tu stesso – Cardia – in riferimento all’8 per mille nel 2000 hai sostenuto che si è andati oltre alle previsioni e alle aspettative di chi l’aveva concepito all’interno e dalla parte dello Stato e di chi lo aveva accettato dalla parte della Chiesa.
Per quanto concerne alle questioni etiche, che richiamava il Presidente Bertinotti, ritengo che ci si possa e ci si debba dividere, e che quando ci si divide si possa andare in maggioranza o in minoranza, essere vincitori o sconfitti. Quello che non è ammissibile è che qualcuno pretenda di essere il detentore dell’unica verità, dell’unica concezione della religiosità e dell’etica e che pretenda anche l’imprimatur sulla laicità accettabile o meno.
Credo – e in questo sono d’accordo con Stefano Rodotà – che sia sbagliato valutare il Concordato soltanto con il metro delle categorie della separatezza e della ingerenza o non ingerenza. Oggi siamo di fronte a un’offensiva che travalica e va ben oltre l’ambito dello Stato italiano. Quando gli statisti del Risorgimento, in massima parte cattolici liberali, concessero unilateralmente al Papa un suo territorio e una sua sovranità, non potevano pensare che quella sovranità e quel territorio sarebbero diventati lo Stato della Città del Vaticano, che la Chiesa usa per un’azione di lobbingrispetto all’Unione europea e alle altre organizzazioni internazionali.
Il confronto quindi si sposta a livello internazionale e sovranazionale. L’Italia per la Chiesa acquista un valore molto importante: può essere e diventare nelle sue intenzioni la base di una rivincita contro la modernità.
Qualcuno ha detto che l’Italia farà la fine della Vandea nella Rivoluzione francese o della Calabria del cardinale Ruffo durante la monarchia murattiana o della Baviera cattolica nella Germania della Riforma. Io non sono d’accordo: il nostro Paese è profondamente secolarizzato e il rischio che corrono lo Stato, la Chiesa, la politica e la religione è di trovarsi tra qualche tempo circondati dalle macerie di un processo di secolarizzazione privato della laicità, privato del rispetto dell’alterità e delle macerie di una mancata rinascita religiosa che, come diceva Aldo Moro all’indomani della sconfitta del referendum sul divorzio, può fondarsi soltanto sulla testimonianza della fede e non sulla prevaricazione della legge.

Tullia ZEVI

Non sono una femminista arrabbiata, ma ero abbastanza soddisfatta quando nel primo congresso, uno dei primi del dopoguerra, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane prese in considerazione la possibilità che il Presidente dell’organo rappresentativo dell’ebraismo italiano fosse guidato da una donna: io.
Ricordo che mio elettore era un uomo di grande coraggio, ex partigiano, un uomo senza peli sulla lingua e di sicura fede democratica, che girava fra i delegati del congresso. Da buon veneziano parlava in dialetto veneto e diceva: «Votè, votè per Tullia – che sarei io – la s’è ’na donna ma la capisce tutto». Non so se sia vero: di essere donna ne sono sicura, ma di capire tutto non proprio. Comunque con quello slogan mi elessero, e non fu una cosa molto semplice. Un autorevole rappresentante del rabbinato italiano, rifacendosi al filosofo medievale Maimonide, sostenne che nessuno donna poteva sedere in un consiglio. I delegati non furono però dello stesso parere e fui eletta, prima donna nella storia dell’ebraismo italiano, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche. E non devo aver svolto il mio compito molto male, se alla fine del quarto mandato dissi: “Se mi rieleggete, scappo!”.
È stata un’esperienza estremamente interessante, che mi ha dato l’onore e l’onere di presiedere un’alleanza alla vigilia del negoziato per il Concordato con lo Stato italiano. Uno dei miei migliori consiglieri, e la mia memoria va a lui, è Giorgio Pero, grande giornalista valdese a cui mi rivolsi per consiglio nella stesura del testo. La cosa divertente è che Pero, nel leggere il testo, disse che non vi riscontrava una forte presenza della Halachà, la legge ebraica. In altri termini, riteneva che l’intesa non fosse impregnata di spirito ebraico. Cosa il testo volesse significare è chiarissimo: un accordo fra uno Stato e una confessione religiosa.
Il dibattito fu comunque molto animato, profondo e interessante, e ora abbiamo un’intesa che funziona. Perfettibile, come tutte le umane cose, però l’accordo ha retto finora e ci garantisce libertà e autonomia, avendo come controparte l’osservanza delle leggi. Quando ci sono dei problemi da discutere, è facile trovare i giusti interlocutori.
Insomma, l’intesa, che per le minoranze religiose è l’equivalente del Concordato per la Chiesa cattolica, funziona.
Ritengo molto interessante poter seguire le vicende di una minoranza religiosa in un Paese a stragrande maggioranza cattolico. A mio giudizio, la democrazia di un Paese si può misurare anche rispetto al modo in cui le minoranze religiose possono portare avanti la loro vita collettiva e comunitaria. A tale riguardo devo riconoscere che in Italia, Paese cattolico e dimora della Santa Sede, le minoranze religiose e quella ebraica in particolare sono profondamente rispettate.

Achille SILVESTRINI*

Guardando indietro, la vicenda della revisione del Concordato, passa attraverso le varianti della politica italiana. La prima mossa è l’ iniziativa dell’on. Lelio Basso, che impegna la maggioranza governativa alla revisione, con la mozione Zaccagnini, Ferri e La Malfa; nel dicembre del 1968 c’è la Commissione di studio presieduta dal guardasigilli Gonella, la quale presenta i risultati nell’aprile del 1971. Alla pubblicazione di questi, si ebbe come effetto l’ordine del giorno Andreotti, Bertoldi, La Malfa, Iotti e Taormina che invitava il governo a fare proposte alla Santa Sede. Tutto questo, che si avviava in modo promettente, si scontrò con la questione del divorzio. Stava andando avanti il progetto di legge Fortuna-Baslini che coinvolgeva l’art.34 del Concordato sulla disciplina del matrimonio. Nell’ottobre del 1970 la Conferenza Episcopale indicava precisamente nel progetto Fortuna-Baslini la violazione di uno dei punti fondamentali dei Patti Lateranensi. Nello stesso tempo, in Parlamento, era votata la legge sul referendum popolare abrogativo che ebbe origine precisamente da questa vicenda. Ancora a marzo e a luglio del 1971, la Corte costituzionale due volte respinge i rilievi che venivano presentati sulla costituzionalità della legge. E si termina col referendum del 12 maggio 1974.
Comprensibilmente la Santa Sede si trovò in difficoltà ad accettare una trattativa di revisione del Concordato. E’ vero che nel frattempo c’era stato un mutamento del Concordato portoghese che toglieva il collegamento fra il matrimonio canonico e il matrimonio civile ma, nello stesso tempo, in Italia la questione doveva essere, come dire, metabolizzata.
Successivamente viene l’evoluzione dei governi di solidarietà nazionale, presieduti dal Presidente Andreotti, che prese l’occasione di proporre all’altra parte il negoziato, cosicché nell’ottobre del 1976 cominciò la trattativa. Andreotti chiamò il senatore Carlo Gonella, il professore Arturo Carlo Jemolo e il professore Roberto Ago: una trattativa che si avviò in modo quasi clandestino. Andreotti voleva presentarsi al Parlamento con la sorpresa di una proposta concreta. La delegazione della Santa Sede era presieduta dall’ arcivescovo Agostino Casaroli, allora segretario del Consiglio, composta da padre Salvatore Lener, studioso di diritto e scrittore di «Civiltà Cattolica», e dal sottoscritto.
La trattativa si protrasse per alcuni anni. Terminò nel 1982. La revisione, com’è noto, fu firmata nel febbraio del 1984. Guido Gonella e Carlo Jemolo non poterono vederne la conclusione: nel maggio del 1981 morì Jemolo, l’anno dopo Gonella. A Gonella successe Pietro Gismondi, a Jemolo Paolo Rossi. Il professor Ago fu il solo a essere protagonista di tutta la revisione e assistette anche alla firma dell’Accordo. Molto bello è stato il ruolo di queste persone a cui vorrei rendere omaggio.
Ognuno dei tre teneva particolarmente a qualche punto: Gonella curava i diritti della persona e aveva la preoccupazione di formulare testi strettamente sovrapponibili a quelli costituzionali. Come convinzione personale, teneva moltissimo a che fosse conservato intatto l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche. Il professor Jemolo aveva anche lui un senso profondo della libertà, ma era molto cauto e guardingo su ciò che riguardava il riconoscimento del matrimonio canonico: se noi prendiamo l’art. 8, attuale, nel paragrafo 1, che dà le norme sulla celebrazione per la trascrizione, è tutto del professor Jemolo.Dall’altra parte, invece, era preoccupato che fossero garantiti alla Chiesa spazi adeguati per le istituzioni caritative e sociali: era straordinario il fatto che andava a braccetto con Lener in merito alle istituzioni caritative e sociali della Chiesa, mentre confliggevano per quello che riguardava le norme sul matrimonio.
Il professor Ago si dedicò a studiare la procedura per il riconoscimento civile delle sentenze di nullità matrimoniale, emesse dai tribunali ecclesiastici. Da esperto internazionalista riteneva che lo Stato italiano non potesse ricusare il procedimento di delibazione a sentenze che nascevano in un ordinamento autonomo come quello canonico, che egli stesso diceva il più antico, glorioso, dopo il diritto romano.
Gli incontri si protrassero per mesi e mesi, per la difficoltà di trovare un accordo in sede parlamentare. Non c’erano istruzioni del governo su determinate formulazioni, ma l’indicazione generale di adeguarsi alla Costituzione; l’onorevole Gonella, invece, andava a visitare tutti i gruppi parlamentari presentando le proposte e riportava l’effetto di questi contatti. E’ molto interessante perché, a un certo punto, esaurita la nostra trattativa, il risultato passò all’esame del Presidente Giovanni Spadolini il quale creò una Commissione per conto suo, presieduta dal professor Caianiello, per valutare se il progetto era meritevole di approvazione. E dopo averci molto pensato, disse che non si sentiva di accettare e concludere quell’ accordo. La difficoltà, per quello che ricordo, riguardava l’insegnamento della religione, perché Spadolini considerava che l’articolo proposto non fosse adeguato a quello che egli pensava dovesse essere una totale libertà di scelta.
E arriviamo alla cosiddetta terza fase. Siamo a metà del 1983, ed è il Presidente Craxi, a cui va veramente dato il merito di aver preso in mano il problema, il quale incarica il professor Margiotta Broglio e l’onorevole Gennaro Acquaviva di concludere. Emerge la grande novità del cambiamento del problema economico del clero che comportava l’abolizione della congrua. Il cardinale Anastasio Ballestrero, presidente della CEI, ci incoraggiò: «è appena uscito il Codice di Diritto Canonico - siamo a metà del 1983 - il quale ha abolito il beneficio ecclesiastico che è il presupposto della congrua: perché non ripensare il tutto?» Nacque allora il progetto di revisione di tutto il sistema di finanziamento per la Chiesa e del trattamento economico del clero, che è stato poi condotto avanti in soli sei mesi, anzi in meno ancora dei sei mesi previsti. Ricordo che Spadolini mi telefonò: «ma dove mai in Italia si è concluso qualcosa in sei mesi?». E invece la Commissione funzionò. E questa fu la conclusione del nostro impegno.
Credo che il Concordato del 1984 abbia veramente chiuso una controversia che si trascinava e nello stesso tempo abbia messo in evidenza anche l’interlocutore nuovo di questi rapporti che è la Conferenza Episcopale. Ricordo che negli incontri che ebbi col Consiglio permanente della CEI nacque la formula dello Stato e della Chiesa che «sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani» (viene dalla Costituzione) e s’impegnano «al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti e alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese»: fu una proposta della CEI stessa. Sappiamo anche degli accordi che successivamente sono stati fatti con la CEI, ad esempio quello che riguarda i beni culturali. Vorrei esprimere un pensiero alla memoria delle persone che ho incontrato, non solo Gonella, Jemolo, padre Lener, il professor Ago, ma anche alle persone rappresentative che avemmo occasione di consultare in rappresentanza dei partiti politici. Ricordo sempre Paolo Bufalini, grande umanista, attento e capace nel penetrare i problemi e accompagnato, a sua volta, da Carlo Cardia. Ricordo Mauro Ferri, ricordo Gaetano Arfè, valente storico, e ricordo anche la parte, chiamiamola così, “benevolmente astensionista”, cioè il Partito liberale, con Malagodi e Valerio Zanone, accompagnati da Antonio Patuelli. Un particolare e grato ricordo vorrei dedicare al professor Francesco Margiotta Broglio, valente e sagace studioso, e al senatore Gennaro Acquaviva, che operarono con intelligenza e determinazione per portare a compimento la trattativa.
Il grande ricordo che ho degli esponenti di quella classe politica, non è soltanto una memoria, è un esempio che va ricordato, oggi soprattutto. E rinnovare gratitudine alla memoria dell’onorevole Bettino Craxi che allora prese saggiamente l’iniziativa decisiva per concludere con apertura e spirito moderno la revisione concordataria.
A venticinque anni dal Concordato non spetta a me dare un giudizio sull’oggi. Penso tuttavia che la tranquillità che abbiamo avuto in questo tempo in materia concordataria offra da sola un giudizio favorevole della revisione effettuata e di quale sia la strada da seguire. Ci sono temi che pur non menzionati nel trattato, come già disse il cardinale Casaroli al momento della firma, oggi sono da affrontare come la famiglia, la gioventù, il volontariato.
Una proficua collaborazione tra Stato e Chiesa può dare grandi frutti per il futuro.
*Testo inviato al Convegno


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