Daccò, il faccendiere arrestato per bancarotta ammette: «Ho preso quei soldi, me li dovevano»
GIOVANNA TRINCHELLA
Faccendiere o general contractor che sia Pierangelo Daccò, in carcere per aver concorso anche con don Luigi Verzè alla bancarotta del San Raffaele, ha raccontato in sette ore al giudice per le indagini preliminari di Milano Vincenzo Tutinelli la sua storia personale e lavorativa e che sì, quei soldi che la Procura di Milano gli contesta li ha intascati davvero. Denaro, almeno tre milioni e mezzo di euro, che però giustifica così: «Erano restituzioni di prestiti personali fatti a Mario Cal (l’ex braccio destro di Don Verzè morto suicida a luglio, ndr)». Un rapporto quello con l’ex vice presidente della Fondazione che Daccò definisce come un giro circolare di nero che era iniziato quando Daccò era entrato nella proprietà di un altro ospedale milanese il San Giuseppe. I soldi andavano e ritornavano in questo scambio senza apparente finalità. Che però alcuni (per esempio Pierino Zammarchi, il costruttore anch’egli indagato a piede libero) paiono dubitare fosse destinato ai politici. È una conversazione intercettata il 4 novembre scorso in cui l’imprenditore delle sovraffatturazioni racconta che il figlio Gianluca vorrebbe dire quello che sa: «... che il Mario (Cal, ndr) diceva che dava dei soldi ai politici...». Una storia che non convince del tutto Zammarchi che però dice al suo interlocutore: «Pensi che gli possa aver dato dei soldi ai politici, ma non hai le prove! E ma questo, ma questo si chiama Daccò... che era sempre lì tra una balla e l’altra e chi ti dice che questo Daccò li dava, i soldi che prendeva da Cal ai politici». Perché è lì che la Procura di Milano vuole arrivare: sapere i destinatari finali dei fondi neri che hanno prosciugato le casse di una eccellenza della sanità e della ricerca. Quello che emerge dall’inchiesta, coordinata dai pm Luigi Orsi, Laura Pedio e Gaetano Ruta, è che tanti sapevano del sistema e del modo. Del fatto che c’era una cassaforte per quei soldi nascosta proprio dentro il San Raffaele. «Dietro una falsa colonna nel corridoio che collegava gli uffici all’atrio esterno» dove c’erano gli uffici della vice presidenza. Lì venivano custodite le buste di denaro, con banconote da 500 euro, provenienti dal costruttore della Diodoro Zammarchi e destinate a Daccò. «Il dottor Cal chiamava Zammarchi e gli chiedeva di portare il contante» racconta la signora che ricorda anche la frequenza degli incontri «all’incirca una volta al mese» e a partire dal 2005. Sapevano tutto o quasi anche: «Il ragionier Mario Valsecchi (il direttore amministrativo primo degli indagati dell’inchiesta, ndr)», naturalmente Cal definito «mister 5%». Sapevano, secondo la segretaria, il dirigente Danilo Donati e «La Voltolini, donna di don Verzé, la segretaria di Cal, Stefania Galli...» e tanti altri.
Non ci sono solo meccanismi da chiarire di soldi in uscita, sovraffatturazioni, retrocessioni nella vicenda San Raffaele; ci sono le spese e le anomalie di una gestione, con affari immobiliari strapagati, che comportò l’acquisto di un superjet da venti milioni di euro, che secondo un esperto ne valeva la metà, e questo solo perché secondo un teste evitava a don Verzè di fare il check in. Chiede il pm al teste: «Le pare comprensibile il fatto che la Fondazione spenda quasi 20 milioni di euro per un aereo? Chi ha deciso questa cosa?» e lei: «La decisione è stata di Verzé e Cal certamente. Convengo che si sia trattato di un’operazione sopra le righe. Non so dire quanto venga sfruttato l’aereo, so che viaggia su Romna, Olbia e in Brasile (dove c’è la fazenda, ndr). Nessuno ci ha mai chiesto di calcolare comparativamente la convenienza di fruire di normali servizi di linea. Posso dire che don Verzè, vista l’età, non accetta facilmente dei normali check-in quando viaggia in aereo. Convengo che non è una motivazione seria per fare una spesa così enorme». A gestire all’inizio l’affare dell’aereo, forse è solo un caso, fu proprio Pierangelo Daccò. Che oggi saprà dal gip se resterà in carcere o andrà ai domicliari come ha chiesto la difesa che ha presentato una memoria in cui si contesta l’uso della legge fallimentare visto che la Fondazione è stata ammessa al concordato, data che per la procura di Milano è anche quella di inizio del reato.
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