Il mistero dell’ omicidio di Gianmario Roveraro, il finanziere milanese dell’ Opus Dei ucciso nell’estate del 2006 nel Parmense, tra Solignano e Citerna, è diventato un libro (Feltrinelli editore). Opus Dei, il segreto dei soldi è stato scritto da due inviati del quotidiano Il Sole 24 Ore, Angelo Mincuzzi e Giuseppe Oddo che sono partiti da alcune domande: «Che cosa ci faceva Gianmario Roveraro con un gruppo di affaristi di basso livello? Perché Roveraro, già numero uno della finanza bianca in Italia, faceva trattative e imbastiva progetti con personaggi strani, sospetti, in alcuni casi già compromessi?».
LA VITA DI ROVERARO E L' OPUS DEI. Il volume ripercorre la vita di Roveraro, la vicenda processuale e si conclude con la vera rivelazione: i soldi degli affari con uno strano gruppo di persone erano destinati all'Opus Dei. Per oltre due anni gli autori hanno ripercorso la vita di Roveraro e i suoi rapporti d'affari. Dai risultati dell'inchiesta giudiziaria hanno indagando sulle relazioni tra i protagonisti, sono arrivati a incrinare il muro che avvolge nel mistero i meccanismi di reclutamento e di finanziamento della prelatura della Santa croce, scoprendo una galassia di società controllate da uomini che gestiscono un ingente patrimonio immobiliare.
ERGASTOLO AI SOCI ASSASSINI. Con il rigore dell’inchiesta giornalistica e il viluppo narrativo proprio del “giallo”, il lettore viene proiettato in un viaggio all’interno di un mondo in cui tutto gira intorno al denaro e alla fede. Per l’omicidio di Roveraro, il cui corpo fu trovato dilaniato nelle campagne tra Solignano e Citerna, nei pressi di Fornovo di Taro, è stato condannato all’ergastolo Filippo Botteri (consulente finanziario parmigiano) oltre a due suoi complici, Marco Baldi ed Emilio Toscani. Roveraro è stato ucciso il 21 luglio del 2006, due giorni dopo il sequestro, con un colpo di pistola alla nuca e il cadavere era stato fatto a pezzi con un machete. Alla base del rapimento e dell’omicidio c’era un affare finanziario finito male, il cosiddetto “affare Austria”.
DENTRO I MISTERI DELL’ OMICIDIO ROVERARO
L’ omicidio Roveraro colpisce uno degli uomini simbolo dell’Opus Dei e apre una breccia nel muro di segretezza che circonda i rapporti tra l’ Opera e il mondo degli affari. Roveraro è l’unico esponente di punta del mondo finanziario italiano a poter dichiarare la propria appartenenza a un’organizzazione che non diffonde la lista dei propri aderenti ed è additata come un’associazione segreta che persegue fini di potere nella chiesa, nelle istituzioni e nell’economia. Forse nessuno indagherebbe su un personaggio uscito di scena da anni se non fosse morto nel modo barbaro che sappiamo. Oggi abbiamo gli elementi per aiutare a comprendere i “perché” del suo assassinio.
Tanto per cominciare, il rapimento. Botteri ritiene di avere armi di ricatto nei confronti di Roveraro. Ciò emerge chiaramente dagli atti giudiziari. Non si spiegherebbe diversamente la sua idea di sequestrare a viso scoperto una persona che conosce bene. Sono a viso scoperto anche i due complici, che non prendono precauzioni per non farsi riconoscere. Non solo: durante il viaggio verso il “nascondiglio” di Albareto il quartetto fa una sosta in un autogrill con Roveraro seduto sul sedile posteriore che potrebbe tentare la fuga o cercare di richiamare l’attenzio ne. D’altro canto i rapitori non sembrano dei balordi. Hanno pianificato con cura il sequestro e hanno scelto come mezzo per comunicare un sistema a prova d’intercettazione, Skype. Un’idea del genere non esce dalla mente di tre sbandati. Semmai potrebbe essere la spia di una sofisticata regia criminale, di cui tuttavia non c’è prova. Sembra aleggiare sul sequestro come l’ombra di un segreto che obbligherebbe il finanziere a non denunciare i rapitori dopo il rapimento, anche se Roveraro dimostra di non avere nulla da temere. Sembra impossibile che un personaggio estremamente riservato e freddo come Roveraro sia stato in vena di confidenze professionali con Botteri. Sta di fatto che Todescato dichiara di aver saputo da Botteri di presunte attività illecite che sarebbero state svolte da Roveraro per conto della Parmalat. La notizia di reato non sfugge al giudice per le udienze preliminari Guido Salvini, che ha firmato sia l’ordinanza di arresto di Botteri sia l’ordine di carcerazione di Tanzi nel dicembre 2003. Nonostante abbiano indagato per tre anni sulla Parmalat e sia già in corso il processo di primo grado, i responsabili della procura la lasciano cadere nel vuoto. È come se la verità sull’affare Austria non sia ritenuta importante pur rappresentando il probabile movente dell’omicidio.
L’ammissione di colpevolezza di Botteri spinge i due sostituti procuratori, Nobili e Venditti, a scartare qualsiasi altra pista o notizia di reato. Da un interrogatorio emerge, per esempio, che Botteri acquista illegalmente alcuni tabulati telefonici dall’agenzia investigativa Tom Ponzi, che negli anni settanta è coinvolta nel primo scandalo sulle intercettazioni telefoniche. I tabulati contengono le chiamate partite dall’apparecchio di Brunelli, legale di un piccolo imprenditore che ha chiesto un finanziamento a Botteri e che questi sospetta sia in contatto con Roveraro. Tuttavia i pm non approfondiscono l’episodio e non perquisiscono gli uffici dell’agenzia. La Direzione distrettuale antimafia potrebbe essere affiancata da un pubblico ministero del pool per i reati finanziari guidato dall’attuale procuratore aggiunto Francesco Greco. Un magistrato si rende disponibile a dare
manforte ai colleghi dell’antimafia i quali hanno avuto assegnata l’inchiesta perché si pensa che Roveraro sia nelle mani di un’organizzazione criminale. Ma il procuratore capo Manlio Minale decide che nessuno debba occuparsene all’infuori di Venditti e Nobili.
Intanto un pubblico ministero della procura di Nuoro che apprende dai giornali la notizia della scomparsa di Roveraro scopre che due suoi indagati, intercettati dalla questura, parlano del finanziere rapito. Nel corso della telefonata i due fanno riferimento a un incontro con Roveraro che sarebbe avvenuto pochi giorni prima e a un’ingente somma di denaro che dovrebbero ricevere dal finanziere. O i due sanno di essere ascoltati dalla polizia e cercano di depistare le indagini oppure non lo sanno e parlano di fatti realmente accaduti. Da Nuoro arriva un’informativa alla procura di Milano, che non avrà alcun seguito. Non ci sono dubbi sulla colpevolezza di Botteri. L’assassino è reo confesso, anche se ritratta più volte le sue dichiarazioni. È però un fatto che nell’auto usata per trasportare i resti del corpo di Roveraro non vengano trovate né tracce di sangue né resti di materiale organico.
La circostanza lascia alquanto perplessi, perché sembra impossibile che un cadavere maciullato a mani nude con un machete, di notte e in aperta campagna, e conservato in sacchi di plastica, non lasci una piccola traccia di sé all’interno di un veicolo. È incredibile, ma nell’abitacolo non vengono ritrovati né un microscopico brandello di pelle, né l’impronta di uno schizzo di sangue, magari rimasto sugli abiti, sulle mani o sulle suole dell’assassino o del suo complice.
Si può inoltre affermare con relativa certezza che Roveraro sia consapevole di intrattenere rapporti con persone impresentabili nella comunità degli affari. Ammesso che abbia avuto qualche dubbio all’inizio, l’arresto di Gnudi e Todescato per la truffa dei falsi titoli del Crédit Agricole dovrebbe avergli aperto gli occhi. Invece succede il contrario, fino a quando non decide di sciogliere l’Eds nel 2005. Ai carabinieri che lo interrogano in seguito alla denuncia di Maffei dichiara di non avere rapporti con il faccendiere di Camisano Vicentino: il che è falso, perché Todescato ha firmato un contratto che lo impegna a trovare una linea di credito da 30 milioni di dollari a favore di Roveraro e Botteri.
L’imbarazzo del finanziere è provato anche dal giro di bonifici organizzato attraverso la moglie e la zia di Botteri per far arrivare in Svizzera il denaro destinato a Todescato. Persino Laetitia Botteri è sorpresa che Roveraro si circondi di personaggi di livello così basso, ma lui le ribatte che per fare l’alta finanza occorre la bassa manovalanza: frase assai ambigua e mai contestata in dibattimento, che si presta alle più varie interpretazioni.
Gualtieri, esperto di finanza, mette in guardia Roveraro dalle confuse e singolari proposte d’affari di Maffei, ma lui procede imperterrito per la sua strada. Né si fa scrupolo di scegliere come fiduciario un professionista svizzero come De Vittori, che tempesta di telefonate dalla prigione di Albareto per chiedergli prima 10 milioni e poi un milione. È incomprensibile una così perentoria e ingente richiesta di denaro a un esperto di scatole cinesi che, da quanto risulta, non ha in gestione beni di Roveraro, né procure per operare sui suoi conti bancari. Uno con la reputazione di Roveraro dovrebbe diffidare di persone del genere, ma lui è deciso ad andare avanti perché conta sui futuri proventi dell’affare Austria per finanziare attività caritatevoli per l’Opus Dei. Non c’è da stupirsene.
Roveraro è molto generoso con la Prelatura e con chiunque gli chieda aiuto. Mette il proprio lavoro a disposizione dell’Opera. E le opportunità che avrebbe per arricchire se stesso le utilizza per finanziare attività di apostolato: aprire scuole, residenze universitarie, centri per numerari. Fintantoché è al vertice della Sige e della Akros le occasioni per trovare fondi da distribuire in beneficenza non gli mancano. La Sige è seduta su una montagna di denaro che cresce di giorno in giorno con la raccolta dei fondi comuni d’investimento e la Akros ha intorno a sé i più bei nomi del capitalismo italiano. Una volta estromesso, però, le opportunità cominciano a scarseggire. Allora non tralascia niente, nemmeno le operazioni di piccolo cabotaggio, soprattutto se a proporgliele è qualcuno che ha conosciuto nell’ambiente dell’Opus Dei.
Roveraro tenta di rientrare nel grande gioco della finanza, cerca di dar vita a una nuova iniziativa professionale – ci sono varie testimonianze in tal senso – ma gli amici lo scoraggiano. Riesce ad avviare soltanto una piccola società di consulenza immobiliare, settore peraltro da cui dovrebbe tenersi prudentemente a distanza perché all’origine del dissesto della Akros. Come finanziere è chiuso in un angolo, nessuno sa più niente di lui, gli amici di un tempo si sono defilati, la rottura con Gotti Tedeschi è definitiva (si rivedranno per caso a un ricevimento dopo più di dieci anni). Mantiene qualche contatto con gli ambienti che contano, ma di fatto si trova isolato. Pesa su di lui il fallimento della Akros. Lo sorreggono soprattutto una fede profonda e un forte senso di appartenenza alla Prelatura, a cui dà tutto se stesso.
Quando il commercialista Rocca, numerario della sede di Palermo, si rivolge allo studio Cesarini-Gualtieri per un piano di salvataggio della famiglia Rappa, costruttori siciliani indagati per mafia, lui si mette a disposizione delle banche creditrici e assume l’incarico di liquidatore delle società del gruppo. È una nomina che accetta per spirito di obbedienza, perché a chiederglielo è un altro importante esponente della Prelatura. Forse è per questo stesso senso di obbedienza che finisce per cacciarsi nell’affare anglo-austriaco. È infatti nel giro dell’Opus Dei che conosce Maffei ed è a sua volta Maffei a fargli conoscere Todescato. Lo stesso Botteri sostiene di aver saputo dal finanziere che dell’operazione Austria sarebbe stato al corrente un direttore dell’Opera. Circostanza, questa, mai provata. Vari altri episodi degli anni ottanta e novanta sono una dimostrazione ulteriore della tendenza di Roveraro a circondarsi, insieme a manager di riconosciuto spessore professionale, di figure meno valide. Alcuni dei suoi ex collaboratori raccontano che il finanziere si lasciava condizionare da richieste provenienti dal suo ambiente religioso e che la commistione tra fede e affari lo abbia indotto a compiere scelte errate durante la permanenza in Sige e Akros, sia sulle persone che sulla gestione aziendale.
Resta tuttora oscura la reale natura dell’operazione Austria. Dalle dichiarazioni agli atti dell’inchiesta emerge un racconto parziale e impreciso come se nessuna delle persone interrogate abbia una conoscenza completa dell’affare. Ciò potrebbe avvalorare la tesi della truffa ipotizzata dalla procura di Milano, che aveva aperto un fascicolo in cui Roveraro e Botteri erano considerati parti lese, mentre Gnudi, Todescato, Maffei e De Vittori risultavano indagati. Purtroppo quel fascicolo è stato archiviato. C’è poi il collegamento con la vicenda Parmalat. Roveraro, attraverso la Akros, ha un ruolo chiave nella quotazione indiretta della ex società della famiglia Tanzi. Dopo l’ingresso in Borsa, nel consiglio d’amministrazione della Parmalat ritroviamo il finanziere di Albenga e il suo braccio destro di allora, Gotti Tedeschi, entrambi esponenti della finanza opusdeista. Dopo meno di dodici mesi Gotti Tedeschi si dimette, mentre Roveraro mantiene l’incarico di amministratore fino all’approvazione del bilancio consolidato al 31 dicembre 1997. In questo periodo ruotano intorno alla Parmalat persone vicine agli ambienti svizzeri dell’Opus Dei: il direttore della banca dei Grigioni, Giuralarocca, l’avvocato Forni e il suo assistito De Grandi.
Questo è un punto di assoluta novità. Sia Giuralarocca che De Grandi entrano in contatto con il manager di Bank of America Luca Sala, e tutti e tre finiscono nell’inchiesta per la bancarotta della Parmalat. Sala e De Grandi sono attualmente indagati dal pubblico ministero della confederazione elvetica per il riciclaggio di ingenti somme di denaro distratte dal gruppo di Collecchio ed entro il 2011 saranno processati. Resta da capire se la presenza di persone vicine alla Prelatura rappresenti un fatto episodico.
Roveraro, inoltre, da buon cattolico integralista, ha un’ossessione di cui non riesce a liberarsi: la massoneria. Considera la libera muratoria una iattura per la fede. Ne discute con gli amici. Forse teme che tra Opus Dei e Grande Oriente d’Italia possa esistere un canale sotterraneo di comunicazione. Il primo a rompere il silenzio su questo argomento è lo storico della massoneria Aldo Mola in un’intervista al “Messaggero” del settembre 1995, in cui accenna a generici contatti tra massoni e Opus Dei. Le sue dichiarazioni sollevano un vespaio di reazioni. Solo oggi lo studioso piemontese autore di una ponderosa Storia della massoneria italiana ritorna sull’argomento, rivelando come le due “obbedienze” abbiano trovato forme strumentali e temporanee di convergenza e compresenza. Del resto l’Opus Dei condivide con la massoneria lo stesso carattere di riservatezza che sconfina nella segretezza.
Questo è anche il tema di due interpellanze parlamentari rivolte nel 1986 al governo Craxi, una di Franco Bassanini, Stefano Rodotà e Gustavo Minervini (Sinistra indipendente), l’altra di Claudio Petruccioli, Antonio Bellocchio e Luciano Violante (Pci). In esse l’Opera è considerata un’associazione segreta i cui iscritti rispondono alle sue gerarchie anche quando ricoprono cariche pubbliche. È il ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, futuro presidente della Repubblica, ad assumere alla Camera dei deputati le difese dell’Opus Dei, appellandosi agli articoli della Costituzione sulla libertà di professione della fede religiosa e rimarcando il “carattere istituzionale” della Prelatura personale quale “parte della struttura della chiesa” e del suo “potere di auto-organizzazione [...] espresso al più alto livello”.
La questione della segretezza, ufficialmente messa al bando dall’Opus Dei, non pone solo problemi di ordine costituzionale. L’organizzazione dell’Opus Dei – si legge in un documento sottoscritto da alcune centinaia di fuoriusciti, indirizzato al Vaticano – “è viziata alla radice da metodi illegali, immorali e non trasparenti per l’autorità della chiesa e nemmeno per la maggioranza dei propri sudditi. Questi metodi non provengono da comprensibili errori personali, bensì si tratta di prassi istituzionali, identificate con il cosiddetto ‘spirito fondazionale’ e che – sorprendentemente – non vengono raccolte negli Statuti consegnati alla Santa Sede. Metodi che sono trasmessi in un nutrito numero di regolamenti interni sconosciuti all’autorità della chiesa, e che contengono enormi abusi contrari ai diritti umani più elementari, ai modi pastorali della chiesa e alle norme generali del diritto canonico. Il contenuto di questi regolamenti proviene dal fondatore e viene trasmesso dai suoi immediati successori e collaboratori. Ci troviamo, quindi, di fronte a una realtà ingannevole e affatto trasparente, molto difficile da comprendere anche per coloro che appartengono all’istituzione ai livelli più esterni”.
Questa mancanza di trasparenza, che poi è indice di segretezza, si riflette anche nella rete di società, associazioni, fondazioni, centri culturali e iniziative promosse dai fedeli dell’Opera. Il sistema delle scatole cinesi imperniato su holding domiciliate nei paradisi fiscali, tipico di molti gruppi, in questo caso prende forma attraverso società e organizzazioni non profit domiciliate in Italia, ma che presentano lo stesso grado di opacità di una finanziaria austriaca, maltese o lussemburghese. Lo scopo è analogo: tenere nascosti i proprietari del network, la loro identità, le loro finalità. L’Opera dichiara di non possedere altre proprietà all’infuori della sede prelatizia di Villa Tevere ai Parioli e di non disporre di altri mezzi se non degli stipendi dei numerari e delle donazioni di soprannumerari e simpatizzanti; le attività dei propri iscritti sono frutto di libere iniziative individuali. Nella forma è così.
Nella sostanza tutto porta a credere che l’Opus Dei, attraverso i propri aderenti, eserciti un controllo di fatto su queste strutture, anche se ciò non è giuridicamente dimostrato proprio per quel carattere di segretezza di cui parlavamo. Nessuno può provare con documenti alla mano che la Prelatura da un lato e l’Adigi, l’Apser, l’Iser, l’Ilse, il Cense e la Rupe dall’altro funzionino come vasi comunicanti e riportino a uno stesso soggetto. Tuttavia, l’assenza di trasparenza legittima il dubbio che tra le diverse strutture dell’Opus Dei sparse per il mondo e il vertice di Villa Tevere corrano sotto traccia consistenti flussi finanziari.
È certo che Roveraro abbia dedicato all’Opera tutta la sua vita, e possiamo affermare, anche alla luce delle dichiarazioni di Silvana Canepa, che i guadagni dell’affare anglo-austriaco fossero destinati in beneficenza. Nessuno però ha voluto cercare, nel mondo dei media e della finanza, una verità che andasse oltre quella giudiziaria, anche se l’inchiesta è disseminata di indizi che portano in varie direzioni. Ci si è accontentati di aver trovato l’assassino e i suoi complici. Forse perché, con la sua pervasività e la presenza nei gangli del potere, l’Opus Dei incute timori reverenziali. O forse per non alzare il velo su vicende del passato di cui Roveraro era stato testimone, dalla Federconsorzi alla Parmalat. Vicende che potrebbero chiamare in causa ancora oggi, a distanza di decenni, esponenti della classe politica, di quella economica e della chiesa cattolica.
http://www.lettera43.it/politica/28320/l-omicidio-di-roveraro-in-un-libro-inchiesta.htm
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