domenica 1 maggio 2011

L’eutanasia di Papa Wojtyla che la Chiesa vuole nascondere


Dopo la pubblicazione del saggio ‘La dolce morte di Karol Wojtyla’ – ripreso dalle maggiori testate e televisioni internazionali e pressocché ignorato in Italia – qualcuno (pochi in verità) ha tentato di ‘smontarne’ la tesi centrale: che Giovanni Paolo II abbia rifiutato una terapia (la nutrizione artificiale adottata in tempo utile e continuativamente) che la Chiesa considera moralmente obbligatoria (altrimenti è eutanasia). Ma questa ipotesi viene nuovamente corroborata, in modo dettagliato e stringente.
di Lina Pavanelli

Il breve saggio «La dolce morte di Karol Wojtyla», pubblicato sul numero 5/2007 di MicroMega, ha ricevuto grande attenzione sui media internazionali, e un silenzio pressoché totale su quelli di casa nostra. In quel saggio analizzavo la malattia e il trattamento terapeutico di Giovanni Paolo II e il decorso della malattia negli ultimi due mesi della sua vita, innanzitutto da un punto di vista medico, e poi alla luce dei princìpi di bioetica formulati nei documenti ufficiali della Chiesa cattolica.
Sostenevo, in sintesi, che, dall’analisi dei fatti resi pubblici dalle fonti ufficiali, era possibile ricostruire alcuni aspetti del periodo finale della malattia dell’anziano pontefice in questi termini: la causa della morte del paziente deve essere individuata nel grave stato di debilitazione dell’organismo, che inevitabilmente ha provocato una grave depressione del sistema immunitario. Il quadro patologico è stato provocato da una insufficienza nutrizionale prolungata (tale evoluzione era non rara, in passato, nei pazienti affetti da morbo di Parkinson; oggi può essere prevenuta efficacemente con l’alimentazione enterale). Nel saggio argomentavo che lo stato di insufficienza nutrizionale era conseguente a precise scelte (o omissioni) terapeutiche che non potevano essere state compiute in contrasto con la volontà del paziente, a sua volta reso edotto dai medici (in ottemperanza alla legge e alla deontologia professionale) su tali conseguenze.
Tali fatti, ricostruiti sulle fonti ufficiali, venivano poi sottoposti a una valutazione in ambito bioetico: confrontando il caso di Karol Wojtyla con le norme espresse nei testi ufficiali della Chiesa cattolica, ne risultava un evidente conflitto tra la linea di condotta tenuta e i princìpi espressi.
Reazioni all’articolo di MicroMega all’estero e in Italia
L’eco sulla stampa estera intercetta l’interesse del pubblico al dibattito sui temi dell’eutanasia e dell’accanimento terapeutico nei vari paesi. Le maggiori testate hanno riportato il contenuto dell’articolo, in linea di massima, in modo preciso e neutrale, facendo emergere la vicenda e i termini del problema senza deformazioni. Nel mondo anglosassone i report autorevoli spaziano dal New York Times, alla prima pagina della sezione esteri di Time edizione online (la più importante rivista di approfondimenti esistente). Le Monde e Le Figaro e La Tribune de Genéve sono alcuni fra gli interventi dell’area francese. In Germania il tema viene affrontato con entusiasmo da giornali come il Frankfurter Rundschau e dal primo canale televisivo Ard. Con proprie sfumature, anche i giornali in lingua spagnola si sono occupati del tema, ad esempio El País e La Vanguardia di Barcellona, o l’argentino Clarín. Questo riguarda i paesi più alla nostra portata per ragioni linguistiche. Sintomatico dell’irritazione di certi ambienti e del rilievo dell’argomento toccato: il reportage pubblicato dal Time – un pezzo totalmente sobrio, a firma del noto corrispondente Jeff Israely – ha scatenato, come reazione, un furioso attacco in diretta televisiva da parte di un corrispondente della rete Fox News, il grande network della destra americana. 
In Italia il contenuto del saggio di MicroMega non è stato riportato. Con una sola eccezione: il quotidiano la Repubblica ha ospitato un articolo riassuntivo di Paolo Flores d’Arcais, e ha pubblicato un pezzo del proprio vaticanista Marco Politi, come resoconto della conferenza stampa di MicroMega. C’è stato qualche interesse invece da parte di blog e forum tematici in rete, dove il tema è stato discusso nei circuiti di nicchia. A parte Radio Radicale, che ha messo i propri servizi video a disposizione degli utenti internet, in Italia i blog sono stati l’unica arena per questo dibattito. 
Tra i giornali italiani si può trovare un minicommento, esclusivamente di insulti e di nessun contenuto, sull’Avvenire, quotidiano della Conferenza episcopale. Per il resto, la stessa Cei ha evidentemente gradito l’assenza di informazione sul tema. 

Le critiche
Una «reazione», in effetti, in Italia c’è stata: all’indomani dell’uscita del numero di MicroMega è apparso un articolo sul Corriere della Sera – con richiamo in prima pagina – a firma dal noto vaticanista Luigi Accattoli (1). Dopo un accenno alla tesi pubblicata da MicroMega, il giornalista propone una ricostruzione «diversa» delle settimane precedenti la morte di Wojtyla (2). Mentre negli Acta Apostolicae Sedis si afferma che il sondino nutrizionale è stato inserito il 30 marzo, il vaticanista, citando come fonte anonima «persone che hanno avvicinato il papa nell’ultimo periodo», sostiene che l’uso del sondino sarebbe invece cominciato circa otto giorni prima, e proseguito con diverse interruzioni. 
L’articolo di Accattoli viene pubblicato il 15 settembre. Il giorno successivo, interviene per la prima volta sulla stampa il dottor Renato Buzzonetti, all’epoca medico personale di papa Giovanni Paolo II, in un’intervista, questa volta sul quotidiano la Repubblica (3). 
Il dottor Buzzonetti riafferma che l’alimentazione permanente viene eseguita dal 30 marzo. Visto il risalto con cui la ricostruzione «alternativa» di Accattoli è stata pubblicata il giorno prima, l’intervista a Buzzonetti suona più che una smentita. Se voleva «smontare» le tesi del saggio su MicroMega correggendo nel senso di Accattoli la ricostruzione ufficiale, quella era l’occasione. La versione ufficiale degli Acta Sanctae Sedis viene invece solennemente e polemicamente ribadita. 
È impossibile per noi sapere quale delle due versioni sia vera. Accattoli dice di «non volere entrare nella questione medica né in quella etica», campi in cui si dichiara incompetente, ma presenta i suoi anonimi informatori come più autorevoli dello stesso Buzzonetti. Il che lascia due sole possibilità: l’allora segretario personale il cardinale Stanislaw Dziwisz, e l’allora portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls. 
Le due versioni, una vera e una falsa, lasciano tuttavia inalterati i rilievi avanzati nel saggio di MicroMega, cioè la mancanza di un intervento di nutrizione artificiale adeguato e tempestivo. Lo vedremo in dettaglio più avanti.
La tesi della «dolce morte di Karol Wojtyla» non ha avuto finora contestazioni in ambito scientifico, nemmeno oralmente, da parte dei medici che sono intervenuti nelle conferenze e nei dibattiti organizzati sul tema. L’unica eccezione è un articolo apparso sul sito «Zenit.org», agenzia stampa controllata dal Vaticano, un testo firmato dal medico internista dottor Renzo Puccetti, membro direttivo dell’associazione Scienza e Vita e destinato ai circuiti di informazione di ispirazione religiosa (4). 

I dati e le fonti
Ripercorriamo l’analisi dei dati. Il saggio ricordava al principio un fatto già riconosciuto come evidente da tutti gli osservatori: il pontefice, nell’ultimo periodo della sua vita, era molto dimagrito. È un elemento certo, confermato nella sostanza dallo stesso Accattoli (5). 
Il dato è lampante dalle immagini registrate e diffuse in tutto il mondo. Ma vi sono conferme da altre fonti. Le notizie diffuse dalle più importanti agenzie si possono confrontare con altre fornite da importanti quotidiani (6). Le informazioni giornalistiche non forniscono, ovviamente, dati quantitativi definitivi e probanti sul grado di dimagramento. Il fatto che le agenzie più importanti riportino che «il papa è dimagrito di 15 chili», è tuttavia indicativo: un dimagrimento impressionante appariva a colpo d’occhio a milioni di osservatori. 
L’informazione decisiva proviene comunque da fonte di prima mano, cioè dal memoriale scritto delle persone presenti ai fatti, nonché investite di autorità storica. Si tratta del libro scritto dal dottor Renato Buzzonetti, medico personale di Giovanni Paolo II, e dal cardinale Stanislaw Dziwisz, all’epoca segretario personale del papa, insieme ad altri (7). 

Le condizioni del paziente negli ultimi due mesiUna frase di Buzzonetti riferita al 13 marzo dice che «la lenta ripresa» era «resa difficile dalla deglutizione molto difficoltosa, dalla fonazione assai stentata, dal deficit nutrizionale e dalla notevole astenia» (8). In questa frase sono elencati i quattro fattori che in quel momento avrebbero rallentato il miglioramento delle condizioni del paziente. Analizzando il significato di ciascuno, si comprende che in realtà l’impedimento al recupero della salute è uno solo. La stentata fonazione non consente di parlare ma non ha influenza sulle condizioni generali; il deficit nutrizionale è l’esito di un bilancio calorico negativo, ed è la condizione che doveva essere risolta; l’astenia è solo in parte ascrivibile al Parkinson: è anch’essa la conseguenza di una prolungata denutrizione e non la causa di qualcosa. L’unico vero ostacolo alla guarigione è l’enorme difficoltà nel deglutire, che impedisce l’assunzione di una quantità adeguata di cibo.
Come si è arrivati a questa situazione? Le notizie preoccupanti sulle condizioni del pontefice cominciano ai primi di febbraio, con la dichiarazione di Joaquín Navarro-Valls: il paziente «si alimenta regolarmente e sono da escludere alimentazioni alternative di un tipo o dell’altro» (9). La seconda parte della frase colpiva l’ascoltatore come una frustata, per il fatto che non c’era, al momento, nessun elemento con cui metterla in relazione. Fa riferimento a qualcosa che non ha che fare la patologia di cui si parla: il paziente era stato ricoverato per una laringo-tracheite acuta provocata da una forma influenzale. La frase si poteva riferire solo all’altro problema, e la realtà nota all’ascoltatore era il morbo di Parkinson. Notiamo che Navarro-Valls afferma: si è deciso di non ricorrere ad alimentazione artificiale, non dice che non sarebbe stata utile o necessaria. Una «rassicurazione» fatta a un pubblico che, per ora, non ha ricevuto informazioni preoccupanti, sarebbe priva di senso come strategia comunicativa, a meno che non vi sia effettivamente qualche aggancio problematico con la realtà. 
Dove può essere l’aggancio? Si consideri che per escludere qualcosa bisogna aver compiuto una valutazione. In una situazione del genere però non si valutano elementi a caso, non si avanza come ipotesi quella di alimentare artificialmente il paziente a meno che non si ritenga che, in prospettiva, ne avrà bisogno. D’altro canto, l’alimentazione artificiale è una terapia di cui un paziente affetto da Parkinson in stadio avanzato, prima o poi avrà certamente bisogno. Questa dovrà essere permanente, e si tratterà di una terapia salva-vita, non ci saranno alternative a una tale «proposta» del medico. Una dichiarazione come quella di Navarro-Valls – che comunica all’improvviso la decisione di «non fare» qualcosa, e per un problema che al pubblico è del tutto ignoto – genera un’ombra di inquietudine.
Il dottor Buzzonetti, nel suo libro, descrive il periodo successivo a questa dichiarazione, e quello che descrive è un quadro penoso: una patologia che si trascina insidiosamente, non risolta, che provoca ripetute crisi di insufficienza respiratoria acuta, e le difficoltà del paziente sono continue (10). Il medico scrive: tutto ciò era dovuto proprio alla stenosi funzionale della laringe che era «ben documentata» da molto tempo (ancora settimane prima, in data 1° febbraio, le terapie di assistenza respiratoria erano state definite da lui «non più procrastinabili»). Questo accadeva, evidentemente, perché non era stato fornito l’unico presidio terapeutico in grado di mettere in sicurezza il paziente, cioè la tracheostomia. Per tamponare tale mancanza, un’intera equipe di rianimatori è costretta a uno stato di allerta permanente. Si attende una crisi irrisolvibile, che inevitabilmente richiederà un intervento all’ultimo minuto. L’intervento si sarebbe dovuto fare già prima, si optò invece per le dimissioni, decisamente anomale, di un paziente che non poteva più respirare. 
Possiamo credere che durante tutto questo periodo Wojtyla non avesse problemi di deglutizione, che si alimentasse a sufficienza, con regolarità e in sicurezza? Non ci vuole molta immaginazione per capire che non poteva essere così. Le crisi respiratorie lasciavano spossato il paziente, peggiorando la disfagia e i suoi effetti. Possiamo supporre che il paziente consumasse di regola colazione e pasti, come – episodicamente – è riportato dalla cronaca. La quantità di cibo assunta, però, bastava a soddisfare le richieste metaboliche? Evidentemente no, questo possiamo dirlo con tranquillità perché il grave deficit nutrizionale accumulato, accertato e descritto, presuppone che l’apporto alimentare sia stato nel complesso inadeguato per un arco di tempo dell’ordine di settimane. L’iponutrizione è un processo insidioso che può instaurarsi anche su tempi molto lunghi: di questo i medici sono, ed erano, perfettamente al corrente. 
All’inizio di febbraio, se il problema nutrizionale fosse stato affrontato con decisione, una ripresa delle condizioni del paziente sarebbe stata possibile, ma il tempo a disposizione per agire stava diminuendo progressivamente. Eppure i medici sapevano che, in linea di principio, la prognosi non era negativa, semplicemente perché a tutti gli effetti non si trattava di un paziente terminale. 
Il papa non aveva davanti a sé una morte inevitabile e imminente. Un riscontro di ciò è il fatto stesso che ci sono voluti due mesi di estrema difficoltà a partire dalla prima crisi, prima che il suo fisico crollasse. Che il paziente non soffrisse di alcuna patologia sicuramente mortale è un fatto certificato, anch’esso, dal dottor Buzzonetti in data 10 febbraio 2005 (11). Giovanni Paolo II in quei giorni si sottopose a tutti gli accertamenti possibili compresa una tac «total body». Dai risultati si arriva a escludere definitivamente qualsiasi altra patologia oltre a quelle già note. In sostanza, il paziente soffriva di una sola malattia grave, purtroppo in fase avanzata, ed era il morbo di Parkinson. Questa non era una condanna a morte, era la condanna a una vita di qualità pessima. Che non fosse un paziente terminale lo dice anche il professor Gianni Pezzoli, direttore del Centro per la malattia di Parkinson di Milano, quando, subito dopo l’intervento di tracheostomia, ci fornisce l’immagine clinica di un paziente che con buone riserve funzionaliche potrebbe vivere ancora relativamente a lungo, compatibilmente con l’età (12). Il concetto di «ripresa delle condizioni» deve intendersi nel senso di sopravvivenza, ma la qualità della vita sarebbe inevitabilmente peggiorata. I presìdi terapeutici necessari a mantenere il paziente in vita (alimentazione e respirazione artificiale) non avrebbero garantito il recupero delle funzioni perdute. La prospettiva perciò, era quella di allungare la vita solo a condizione di prevedere una crescente inabilità fisica, e in seguito anche mentale. Il pontefice avrebbe perso qualsiasi seppur minima autonomia, e non avrebbe più potuto svolgere il suo ruolo.
Di quale fosse l’atteggiamento psicologico di Wojtyla nei confronti di questa prospettiva abbiamo qualche indizio nelle parole pronunciate negli ultimi giorni, riferite così dal cardinale Stanislaw Dziwisz: «Forse è meglio che io muoia, se non posso compiere la missione affidatami» (13). Sono pensieri che – insieme alla famosa frase «lasciatemi andare» – sono relativi agli ultimissimi giorni di vita. Nelle settimane precedenti invece la percezione del paziente stesso coincide ancora con quella dei medici: ritiene di poter vivere e non si «sente» un paziente terminale. Ancora il 24 febbraio, dopo che si era all’ultimo momento per la tracheostomia e il paziente aveva rischiato obiettivamente di morire, le sue condizioni non sembravano disperate: superò bene l’intervento che, vale la pena di ripeterlo, ebbe un decorso definito regolare, senza complicazioni (14). Tuttavia Wojtyla cercò fino all’ultimo di evitare o rimandare quell’intervento, e al medico che gli chiedeva il consenso chiese con «commovente semplicità» (15), se si poteva rimandarlo almeno a dopo le vacanze estive. 
Arrivati al 13 marzo, però, dopo la dimissione dall’ospedale, il dottor Buzzonetti finalmente ammette che il paziente si trova in uno stato di grave deficit nutrizionale. 

Sulle scelte terapeutiche
Si può porre in collegamento lo stato di denutrizione con la morte di Karol Wojtyla? Le informazioni che abbiamo sono sufficienti per rispondere sull’accaduto? La risposta è: sì, se le informazioni rese pubbliche sono vere, queste sono sufficienti.
Cominciamo dagli elementi secondari, che suggeriscono solo indizi: lo shock settico finale – in questo caso provocato da una banale infezione alle vie urinarie, originata probabilmente dall’uso del catetere – è un esito tipico che riguarda pazienti molto debilitati, il cui sistema immunitario è gravemente compromesso. Il fatto in sé si presenta come epifenomeno di un quadro ormai divenuto terminale.
Sappiamo inoltre che l’alimentazione enterale, in qualche misura, alla fine è stata applicata. Potremmo domandarci: quando è stata iniziata? Su questo punto abbiamo visto che ci sono due versioni, una ufficiosa e una ufficiale. Per ora limitiamoci a constatare che, evidentemente, era necessaria. 
Ora però consideriamo la malattia del paziente, il morbo di Parkinson. È una malattia neurologica degenerativa tra le più studiate, è stata descritta in tutti i particolari dall’inizio dell’Ottocento e i medici ne conoscono benissimo l’evoluzione. Il decorso è piuttosto lento ed è caratterizzato dalla comparsa di sintomi caratteristici, che si aggravano progressivamente nel tempo. Il pontefice ne era affetto da 14 anni. Quando si è ammalato era ancora vigoroso ed era un paziente che desiderava essere informato sui fatti, sappiamo anche che nel rapporto coi medici ha sempre partecipato attivamente alla definizione dei programmi di cura. È quindi probabile che conoscesse bene le caratteristiche della sua malattia. 
I medici sapevano che la malattia prima o poi avrebbe coinvolto i muscoli faringei, che la disfunzionalità gli avrebbe impedito di deglutire normalmente, e in seguito avrebbe potuto avere anche problemi di respirazione. Nel caso di Wojtyla la disfunzione più pericolosa si era rivelata non la disfagia, che pure era sicuramente presente, ma quella dovuta al coinvolgimento dei muscoli laringei che aveva provocato una stenosi funzionale della laringe con conseguenti pericolose crisi di insufficienza respiratoria acuta.
Alla fine di gennaio c’era stato un importante peggioramento del quadro respiratorio, e verosimilmente anche di quello disfagico. L’evoluzione degli eventi suggerisce che l’equipe medica abbia deciso di monitorare strettamente la funzione respiratoria, lasciando temporaneamente in secondo piano il problema meno acuto, la deglutizione. Ma non possiamo dubitare di una cosa: certamente i medici sapevano che né la funzione dei muscoli laringei, né quella dei muscoli faringei, erano recuperabili. Per entrambe si rendeva necessario, come prospettiva, un trattamento sostitutivo che doveva essere deciso tempestivamente. La parola «tempestivamente» contempla tempi di attuazione diversi nei due casi. Il problema respiratorio si caratterizza per il rischio immediato, l’urgenza; quello nutrizionale apparentemente consente spazi di manovra più ampi poiché non richiede un intervento in emergenza. Non per questo, però, la tempistica può essere ignorata, tutt’altro. 

L’alimentazione enterale e le linee guida europee
Dopo tali premesse, si tratta di capire quale sarebbe stata la forma corretta di terapia, quella in grado di assicurare una nutrizione adeguata. E, sul versante opposto, le conseguenze di una terapia non corretta. 
La validità dei trattamenti terapeutici viene stabilita da società scientifiche preposte, sulla base dei risultati di studi di molti anni, provenienti da centri di ricerca di molti paesi. Per la nutrizione enterale, una delle autorità di riferimento più prestigiose è la Società europea di nutrizione enterale percutanea. Questa ha recentemente pubblicato una Dichiarazione di consenso (Consensus Statement) che illustra le linee guida per l’uso della migliore forma di nutrizione permanente, la Peg (Percutaneous Endoscopic Gastrotomy). Si tratta di un documento lungo e articolato alla cui redazione hanno contribuito molte università europee, inclusa La Sapienza di Roma, documento che riassume i parametri in uso da molti anni dalla scienza medica (16). Qui si illustrano i tempi e le modalità da rispettare nell’utilizzo di una metodica che, applicata correttamente, si è dimostrata di comprovata efficacia. Farò riferimento a questo documento per ogni affermazione che riguarda l’alimentazione enterale.
Nel saggio «La dolce morte di Karol Wojtyla» si parla di sondino gastrico o naso-gastrico senza entrare nei dettagli, per non complicare ulteriormente la vita al lettore; in effetti si fa riferimento una sola volta all’inserimento per via nasale, che è la forma il cui inserimento è meno traumatico e di minor rischio. Se quello naso-gastrico è il modo di applicazione meno invasivo, non è però il più indicato quando si prevede che la terapia debba essere lunga più di due o tre settimane. La Peg è un sondino, praticamente identico, che però viene posizionato mediante intervento eseguito per via endoscopica e laparoscopica, attraverso la parete addominale. È noto che questo sistema è vantaggioso rispetto alla via naso-gastrica per varie ragioni, in primis perché è più sicura e dà molto meno fastidio al paziente: è meglio tollerata sia a livello individuale che sociale, concede al paziente la sensazione di potersi ancora alimentare per via naturale ma senza preoccuparsi della quantità di cibo che riesce ad assumere, inoltre quando non è in funzione è del tutto invisibile. Anche se la sua inserzione non presenta rischi, invece, il sondino naso-gastrico (Sng) è più fastidioso e con il tempo ha un maggior numero di possibili complicanze: irritazioni, ulcerazioni, sanguinamenti, dislocazioni, coaguli, episodi di reflusso esofageo, polmoniti ab ingestis. La Peg è considerata l’opzione di prima scelta ogni volta che ci si aspetta che l’alimentazione di un paziente possa divenire, quantitativamente o qualitativamente, inadeguata nell’immediato futuro per un periodo di/o superiore a due o tre settimane.
Nel Documento di consenso si sottolinea la condizione più importante, tassativa, a cui si deve attenere l’alimentazione enterale: quando è indicata, deve essere intrapresa il più presto possibile. Lo scopo è di prevenire il deterioramento nutrizionale, e agire in tempo è l’unico modo di migliorare la prognosi e la qualità di vita del paziente. È stato dimostrato infatti, che per la maggior parte dei pazienti è pressoché impossibile recuperare lo stato nutrizionale precedente dopo una grave perdita di peso. Orientativamente bisogna sapere che, in presenza di una terapia corretta e permanente, a fronte di una perdita di peso consistente occorrono mediamente dodici mesi per recuperare solo il trenta per cento del peso perduto. 
La denutrizione ha ripercussioni molto gravi sulle possibilità di ripresa di un paziente. Danneggia l’organismo a tutto spessore, anche nei meccanismi molecolari, e in un paziente anziano la severità del danno è molto maggiore. 
Abbiamo visto che con il pontefice si era atteso fino all’ultimo prima di eseguire la tracheostomia per risolvere i problemi respiratori. Il ritardo è da imputare, probabilmente, all’atteggiamento di resistenza del paziente. Per analogia, potremmo anche supporre che una simile resistenza sia stata opposta alla Peg o a un sondino permanente, e sia questa la causa del ritardo con cui i medici hanno provveduto ad attuare la nutrizione enterale. Tuttavia, un atteggiamento di attesa prima di eseguire una tracheostomia, monitorando attentamente la situazione, non ha gli stessi effetti e lo stesso significato clinico di un indugio nel fornire una alimentazione adeguata. 
Nel caso della respirazione ci si attrezza per fronteggiare un pericolo mortale immediato e, se questo viene superato, il paziente ritorna nelle condizioni cliniche precedenti; nel secondo caso, si produce una situazione in cui l’organismo deperisce progressivamente giorno dopo giorno, e con il tempo diviene sempre più difficile da curare. La mancanza di presidio respiratorio crea un problema, ma questo può essere risolto rapidamente con la decisione di applicare la terapia. Il ritardo nella cura della denutrizione, invece, crea un quadro globale che non potrà essere risolto dal successivo cambio di strategia terapeutica. La denutrizione non è una semplice insufficienza funzionale, come una stenosi delle vie aeree; è invece un processo incrementale che peggiora gli effetti in progressione, deteriora o distrugge le capacità dell’organismo stesso a rispondere alle terapie successive. 
Le linee guida hanno messo in chiaro questo punto. Perciò quando un medico capisce che la disfagia non consente più l’assunzione del cibo in quantità sufficiente, ha il dovere di risolvere il problema il più rapidamente possibile. Sempre che il paziente non si opponga, ovviamente.
La disfagia da morbo di Parkinson è irreversibile ed è una delle affezioni per cui la Peg è indicata come terapia di elezione. 
Le controindicazioni specifiche alla Peg sono: gravi alterazioni della coagulazione; carcinomatosi peritoneale; ascite severa; peritonite; anoressia nervosa; psicosi grave. Anche un’aspettativa di vita veramente molto breve può essere una controindicazione. Queste condizioni come visto sopra, per Karol Wojtyla non c’erano. Non vi era controindicazione all’alimentazione enterale e, nel caso ci fosse stata, non avrebbe avuto alcun senso tenerla nascosta, perché avrebbe aiutato a capire l’atteggiamento terapeutico. 
Riguardo le già citate due versioni della vicenda del sondino (quella di Accattoli e quella di Buzzonetti e degli Acta): si scelga come vera quella che si preferisce (qui si apre semmai una questione di credibilità degli Acta della Santa Sede), perché dal punto di vista clinico sono indifferenti. Che l’alimentazione artificiale sia stata di tre o dodici giorni finali, è un dato che, alla luce di quanto abbiamo appena appreso, non può che avere un’influenza minima. Scelgo perciò di considerare la «variante di Accattoli» come quella vera, per il fatto che contiene più giorni di alimentazione artificiale, anche se le fonti più attendibili l’hanno negata. 
Secondo tale versione, un sondino naso-gastrico fu utilizzato nell’ultima settimana di vita del paziente, e precedentemente per alcuni giorni a cavallo tra il 10 e il 13 marzo, circa. L’ultima settimana però ci sarebbero state almeno quattro interruzioni, con rimozione e re-inserimento del sondino. Lo scopo sarebbe stato di consentire al pontefice di affacciarsi alla finestra, senza apparire con il sondino visibile a tutti. 
Se la condotta terapeutica è stata questa, si evidenzia, se possibile in modo ancora più drammatico, il conflitto tra la necessità e la volontà del paziente. Il papa così viene privato della terapia ottimale e sottoposto a una procedura tormentosa e inutile. Il comportamento dei medici può essere solo un ripiego dovuto al fatto che il paziente ha rifiutato e rifiuta la terapia ottimale, come precedentemente aveva evitato di dare fino all’ultimo il consenso all’atto chirurgico necessario. 

L’interpretazione dei princìpi bioetici della Chiesa
Il trattamento che il pontefice non ha ricevuto, la Peg, per la medicina è ordinario, efficace e normalmente ben tollerato, in grado di produrre un allungamento significativo della vita. Le forme di alimentazione enterale – in primo luogo la Peg – al giorno d’oggi garantiscono buone condizioni di sopravvivenza ai pazienti affetti da morbo di Parkinson.
Non vi è nessun modo di spiegare lo stato di denutrizione di Karol Wojtyla, né gli indugi per l’intervento di tracheostomia, o le strane modalità nell’uso del sondino negli ultimi giorni di vita del paziente. Non c’è modo di spiegarlo, se non ipotizzando un atteggiamento del paziente tendente al rifiuto di accettare la prospettiva di una condizione totalmente disabilitante, nella parte finale della vita.
Come considerare una scelta del genere alla luce della rigida dottrina esposta in vari documenti del magistero cattolico? Il precedente saggio analizzava lo scenario in base alla versione ufficiale dei fatti. La seconda variante dei fatti, l’uso irregolare del sondino per una settimana in più, non cambia la tesi. Il papa era un paziente che, per lungo tempo, non è stato un malato terminale, non era di fronte a una morte inevitabile e imminente, ma ha semplicemente rinunciato a una terapia salva-vita che altri pazienti accettano senza problemi. In più, la terapia mancata è considerata dalla Chiesa «mezzo naturale» di supporto alle funzioni vitali, cioè qualcosa che, moralmente, non si dovrebbe rifiutare mai, nemmeno nel caso di malati terminali. 
Siamo di fronte a un caso di rifiuto di accanimento terapeutico, o di eutanasia? La scelta di confrontare proprio Karol Wojtyla con Piergiorgio Welby, che ha ricevuto una condanna morale pari alla scomunica, non è stata dettata da desiderio sensazionalistico. Serve per mostrare la contraddizione che è insita in una dottrina che – questo è uno dei suoi difetti – non è possibile applicare a tutti. Nei fatti, i princìpi etici esposti nell’Evangelium vitae vengono imposti in forza di legge solamente ad alcune persone, gli sfortunati che si trovano nell’impossibilità fisica di opporvisi: solo loro vengono costretti a subire i divieti e precetti morali del clero. Tutti gli altri, finché possono agiscono secondo coscienza. E i medici devono rispettare la volontà del paziente. 
Il documento più recente della Chiesa sull’argomento è la «Nota di commento» della Congregazione per la dottrina della fede (17) pubblicata in settembre. Fa riferimento ai pazienti in stato vegetativo permanente (Svp) ed è stata prodotta in seguito al caso Terry Schiavo. In essa si ribadisce e si riassume quello che è stato già affermato in altri documenti ovvero che: i supporti nutritivi o respiratori non devono essere considerati cure bensì «mezzi naturali» di sostegno a cui non è mai lecito rinunciare nemmeno se questa è la volontà del paziente. Sospensione o rinuncia al trattamento, quando anche consensuali tra paziente e medico, sono definiti eutanasia: «È inaccettabile interromperle o non somministrarle se da tale decisione consegue la morte del paziente» (18). Dunque la mancanza di queste terapie costituisce sempre, per la dottrina cattolica ufficiale, una forma di eutanasia. 
Un secondo punto è che la morale nella bioetica del magistero cattolico ha una caratteristica: proibisce esplicitamente di distinguere fra azione e omissione. Quindi non ci può essere la differenza deontologica che può valere in certi contesti laici. L’eutanasia passiva dal punto di vista etico equivale, secondo la Chiesa, a un’«iniezione letale».
In alcuni dei documenti troviamo però delle espressioni ambigue, se non aperte contraddizioni. Un esempio è nella «Nota di commento» della Congregazione, dove si dice: la somministrazione di acqua e cibo per vie artificiali è «moralmente obbligatoria in linea di principio». Non esclude che «in qualche regione molto isolata […] possano non essere fisicamente possibili», oppure che «per complicazioni sopraggiunte il paziente possa non riuscire ad assimilare». Sembra che ci sia un’apertura a questo punto, quando non esclude nemmeno che «in qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione possano comportare una eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico» ma «questi casi eccezionali nulla tolgono al principio etico generale». Si introduce un peso al disagio del paziente, che quindi forse potrebbe influire sulla scelta. 
Purtroppo, le «aperture» sono solo apparenza. Le parole come «gravosità» ci possono lasciar pensare che a volte la regola si possa addolcire, e declinare secondo le scelte del paziente. Ma non è così. Il termine «eccessiva gravosità» può riferirsi solo alle controindicazioni per l’alimentazione enterale, elencate sopra. In tutti gli altri casi il contenuto delle aperture si svuota di significato, la concessione alla «gravosità» per il paziente non solo è contraddetta dall’impianto generale del documento, ma soprattutto è negata dalla applicazione dei princìpi alla realtà. Ogni volta che si tratta di applicare la dottrina ai casi concreti, come nel caso di Piergiorgio Welby che riteneva troppo gravoso rimanere attaccato al respiratore, la Chiesa prende una posizione di condanna e nega la possibilità di scelta. Le ambigue aperture nei documenti, peraltro, non varrebbero per Wojtyla: non sappiamo se la Peg sarebbe stata per lui troppo gravosa, né poteva saperlo lui, dal momento che non l’ha mai provata.
Tutti i documenti della Chiesa gerarchica sostengono il principio che esistono criteri oggettivi per stabilire se qualcosa è accanimento terapeutico o no, e per poter rifiutare o accettare un trattamento. Il concetto di accanimento riguarda solo i trattamenti straordinari, dai quali idratazione e nutrizione sono tassativamente esclusi: Peg e sondino, perciò, non possono essere accanimento. Il contenuto della «Dichiarazione sull’eutanasia» del 1980 esprime lo stesso concetto: «È lecito […] rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita» ma «senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato» (19). Per la Congregazione per la dottrina della fede, l’alimentazione artificiale è un «mezzo naturale di conservazione della vita» e non un atto medico, e dunque da considerarsi sempre «ordinario e proporzionato, perciò moralmente obbligatorio». 
È difficile fraintendere queste prescrizioni: non c’è molta elasticità sulla nutrizione enterale. È chiaro che, in base a queste norme, opporre resistenza o rifiutare una terapia di nutrizione significa commettere suicidio. 
È del tutto evidente che documenti come la «Nota di commento» e altri mirano a condizionare la legge in modo da non permettere che, in un caso come quello di Piergiorgio Welby, il paziente possa dare corso a una decisione a cui consegua la morte. Ed è evidente la pervicace opposizione della Chiesa gerarchica a una legge sul testamento biologico, che servirebbe proprio per dare ai pazienti facoltà di scelta su decisioni che potrebbero anticiparne la morte. Le dichiarazioni delle maggiori cariche degli organismi ecclesiastici sono tutte orientate a ribadire che il paziente non dovrebbe avere una opzione sulla sua vita. Le «eccezioni» accennate nei documenti dunque sono vuote, e non valgono praticamente mai semplicemente perché il soggetto non ha facoltà di scelta. 
Sempre per chiarire che cosa sia l’eutanasia secondo la Chiesa si può citare un discorso dello stesso Giovanni Paolo II del 1985 (20). Parlando a un incontro di medici usò l’espressione «impegno terapeutico» da cui «non ci si può dispensare», e riprendendo la «Dichiarazione sull’eutanasia» ribadì che non è ammissibile nessuna omissione che abbia lo scopo «di abbreviare la vita per risparmiare la sofferenza, al paziente o ai parenti». E ricorda tuttavia che «certi trattamenti, come quelli che voi chiamate “terapie di supporto”, comportano essi stessi un cumulo di sofferenze, un gravame psicologico sia per i pazienti sia per le loro famiglie» ma anche in questi casi «la presenza della sofferenza anche in fase terminale […] non dovrà consentire» pratiche eutanasiche omissive. 
La successiva enciclica Evangelium vitae elencherà tutti i requisiti per la definizione di «accanimento terapeutico», e così tutti i casi di sofferenza in cui non vi sia la certezza della morte imminente verranno esclusi dalla possibilità di scelta. Molti aspetti di queste dichiarazioni contengono intenti nobili. Ma le regole sono anche orientate a colpire la possibilità di «scelta» dell’individuo. Le parole di Giovanni Paolo II tendono a sottolineare che l’eutanasia non solo può essere omissiva, ma può anche essere surrettizia. Può consistere ad esempio nel trascurare semplicemente qualche aspetto della terapia, al fine di ridurre la sofferenza.
Nei casi come quello di Piergiorgio Welby la sospensione del supporto ventilatorio produce la morte immediata. La consequenzialità fra i fatti è visibile e l’effetto è subito collegabile a un’azione. In realtà questo legame diretto e veloce, secondo la dottrina e anche secondo la logica, non dovrebbe contare. Esistono molti comportamenti, come una successione di omissioni, che nel loro complesso delineano una condotta orientata a non prolungare troppo la vita del paziente, che non ne provocano la morte immediata, ma che possono essere configurati come eutanasia sul piano morale (sempre secondo la Chiesa). La sospensione dell’alimentazione ha un rapporto diretto ma non immediato con la morte. La diversità del caso Wojtyla rispetto al caso Welby sta solo nel ritardo con cui si manifesta l’evento finale, intervallo temporale che consente, ipocritamente, di addossare ad altri eventi intercorsi la responsabilità di un esito reso invece scontato proprio dalle precedenti omissioni.

(1) L. Accattoli, «Quel sondino che nutriva Wojtyla. Ma l’annuncio arrivò molto dopo», Corriere della Sera, 15-9-2007. 
(2) Questa ricostruzione dei fatti era stata già pubblicata in precedenza dallo stesso autore, e ripresa anche da altri giornalisti. Da questa risulterebbe che un sondino per l’alimentazione sia stato utilizzato a partire dal 21 marzo (cioè negli ultimi undici giorni di vita del paziente anziché negli ultimi quattro, come invece suggeriscono le memorie del dottor Buzzonetti). L’uso è discontinuo. Inoltre il sondino era stato utilizzato anche durante l’ultimo ricovero per circa 3-4 giorni, a cavallo tra il 10 e il 13 marzo, ma in questa data era stato inspiegabilmente tolto. 
(3) «A Wojtyla non fu staccata la spina», intervista a R. Buzzonetti di O. La Rocca, la Repubblica, 16-9-2007. 
(4) R. Puccetti, «La morte naturale di Papa Wojtyla: né eutanasia né omissioni mediche», www.zenit.org.
(5) «Siamo dunque di fronte a 27 giorni di alimentazione progressivamente problematica»; «che la questione del deficit nutrizionale […] vada inquadrata nell’insieme delle circostanze in cui è maturata la morte del papa: 85 anni, un Parkinson che andava avanti da oltre 15, un indebolimento generale e progressivo evidente da più mesi», www.luigiaccattoli.it. 
(6) «Peggiorano le condizioni del papa»; www.repubblica.it. 
(7) S. Dziwisz, C. Drazek, R. Buzzonetti, A. Comastri, Lasciatemi andare. La forza della debolezza di Giovanni Paolo II. Questo libro di memorie, redatto con intento evidentemente agiografico, descrive il percorso clinico di Karol Wojtyla. Dziwisz è stata la persona più vicina a Wojtyla, presente fino alla sua morte, il suo testo è redatto insieme a Drazek che era il redattore di fiducia dell’edizione polacca dell’Osservatore Romano. In appendice c’è un testo del prelato Angelo Comastri, vicario generale per la Città del Vaticano. Parti dei testi di Buzzonetti presenti in questo volume erano già state pubblicati dopo la morte di Wojtyla, e compongono il testo degli Acta Apostolicae Sedis. Tra le tutte edizioni in cui questi testi sono riportati, il volume Lasciatemi andare costituisce la fonte più completa. 
(8) R. Buzzonetti, op. cit., p. 78.
(9) J. Navarro-Valls, «Il papa migliora, mangia e respira meglio», www.repubblica.it.
(10) R. Buzzonetti, op. cit., p. 74.
(11) R. Buzzonetti, op. cit., p. 73.
(12) «Il papa nuovamente ricoverato. Le ore difficili», www.rassegna.it.
(13) S. Dziwisz, C. Drazek, R. Buzzonetti, A. Comastri, op. cit., p. 45. 
(14) R. Buzzonetti, op. cit., p. 76.
(15) Ivi, p. 75.
(16) Ch. Löser et al., «(Consensus Statement) ESPEN Guidelines on Artficial Nutrition – percutaneous endocopic gastrostomy (PEG)», Clinical Nutrition, n. 24/2005, pp. 848-857, intl.elsevierhealth.com.
(17) Risposte a quesiti della conferenza episcopale statunitense, Nota di commento della Congregazione per la dottrina della fede, 15-9-2007, firmata in calce dal prefetto cardinal Guglielmo Levada e dal segretario monsignor Angelo Amato. 
(18) Cita Giovanni Paolo II, Discorso del 2-10-1998, negli Stati Uniti d’America. 
(19) «Dichiarazione sull’eutanasia», documento della Congregazione per la dottrina della fede, 1980. 
(20) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti a un corso di aggiornamento sulle preleucemie umane, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, 15-11-1985.


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