domenica 17 aprile 2011

FEDE CONTRO SCIENZA: DALL' ELLENISMO AL CRISTIANESIMO,PARTE SECONDA


CiceroneA partire dal II secolo d.C., se si escludono le importanti eccezioni di Diofanto di Alessandria (III sec.), Proclo di Bisanzio educato ad Alessandria (V sec.) e Filopono di Bisanzio direttore della Scuola di Alessandria (VI sec., cristiano dichiarato eretico dalla Chiesa nel 681), non si produce più scienza originale. Si tenta (e sarà sempre più difficile) la conservazione di quanto fatto in precedenza. I commentari dei classici vanno per la maggiore. Ma, da commentario in commentario, il classico va sparendo. Si fanno poi dei compendi ma anche questi sono sempre più succinti e, anche qui, l'autore originale va sparendo. In questo modo, comunque, si riuscirono almeno a conservare quelli che si possono definire i risultati della scienza greca.
Il metodo, la ricerca, si perse. Si sente negli scrittori di questo lungo periodo come un senso di rassegnazione, di incapacità di porsi al livello dei maestri, una sfiducia nella reale possibilità di conoscere. L'Impero romano, pur non ostacolando direttamente la scienza non è in grado di recepirla e di promuoverla. Dice Cicerone: I matematici greci sono alla testa nel campo della geometria pura, mentre noi ci limitiamo a far di conto ed a prendere misure. I greci di cultura elevata vengono portati a Roma a volte come schiavi. Qui si riconosce il loro sapere che li fa utilizzare come precettori dei figli dei ricchi. Ma questo dura fino a che è vivo il saggio. Non c'è scuola che si costruisca, non vi sono centri in cui poter confrontarsi parlare, sviluppare idee. Ed in ogni caso, lo sradicamento di persone a grande preparazione, di scienziati non ha mai prodotto nulla in contesti diversi. Vi furono un paio di tentativi di costruire un qualcosa che andasse nel senso della scuola ma furono avversati dai nobili senatori romani che avevano paura che certe idee facessero perdere loro privilegi. D'altra parte, con Mason, Roma non era un centro di commerci come le città-stato greche; non erano dei viaggiatori ma dei guerrieri e dei contadini, un poco come gli spartani, i meno colti della Grecia.
         Molte altre cause si coordinano in questo periodo e si sommano andando ad accentuare la decadenza del sapere fino alla totale rovina che si accompagna con la fine dell'Impero di Roma. Non servì a Roma l'espansione in aree nuove e vergini come quelle del Mediterraneo Occidentale come non era servita la penetrazione nel sofisticato e ricco mondo alessandrino. Quando la disposizione al sapere è quella del potere sostenuto dalla superstizione vi è poco da fare. Quando ogni tentativo di spiegazione razionale appare, come era a Roma, un tentativo di togliere il potere agli dèi  si trattava di scegliere tra il lasciar perdere o l'essere accusato di empietà. C'era sempre la terza possibilità, quella cioè di dedicarsi al sapere pratico di tutti i giorni che permise opere come quelle di Vitruvio (circa 80-23 a.C.) sull'architettura, di Frontino (circa 30-103 d.C.) sugli acquedotti, di M. T. Varrone (circa 116-27 a.C.) e Columella (circa 4-70 d.C.) sull'agricoltura,  di A. C. Celso (25 a.C. - 50 d.C.) e Galeno (131-201 d.C.) sulla medicina ed il permanere di alcuni scritti di Diofanto (forse III secolo d.C.) e Pappo (IV secolo d.C.) sulla matematica. Tutte cose di interesse pratico a livelli mediocri di elaborazione.
         In definitiva l'Impero di Roma non sviluppò una sua scienza(2). Solo alcuni dedicarono un grande lavoro in monumentali opere di compilazione (Plinio) che, elaborando in gran parte il pensiero greco, sopravvissero fino all'Alto Medioevo. Per contro Roma dette un imponente impulso all'organizzazione dello Stato ed alla tecnica, anch'essa essenzialmente attività dello Stato. Si formò un servizio medico con ospedali pubblici, si introdusse il Calendario Giuliano, si codificò il diritto romano. Si costruirono importantissime vie di comunicazione, ponti, acquedotti, fognature ed opere civili. Una delle attività più importanti in questo settore fu quella mineraria in cui venivano impiegati migliaia di schiavi.     
        Per capire l'intorno politico-sociale, fornisco qualche riferimento storico: l'editto di Milano del 313 segna il trionfo del Cristianesimo; nel 330 la capitale dell'Impero, diviso amministrativamente, diventa Costantinopoli; nel 391, con Teodosio, il Cristianesimo diventa religione di stato; nello stesso anno il vescovo Teofilo guida fanatici cristiani alla distruzione di parte della Biblioteca di Alessandria; nel 395, alla morte di Teodosio, si scinde l'Impero in Romano d'Oriente e Romano d'Occidente; il 410 vede il sacco di Roma; nel 415 su istigazione di Cirillo, fanatici cristiani ammazzano Ipazia, l'ultima matematica di Alessandria; nel 476 cade definitivamente e simbolicamente  l'Impero romano d'Occidente (in realtà già da molti anni non esisteva più); nel 529 Giustiniano chiude d'autorità l'Accademia di Atene e vieta l'insegnamento ai pagani (non cristiani); nel 642 Alessandria viene conquistata dagli arabi e la Biblioteca sarà definitivamente distrutta. Anche la Chiesa subisce le sue dure sconfitte: prima vi è lo scisma dei copti (IV-V secolo); poi nel Concilio di Calcedonia (451, quando Attila entrava in Italia) lo scisma dei nestoriani; quindi con il Sinodo di Costantinopoli (553) se ne va definitivamente la chiesa monofisitica; finalmente il grande scisma, quello della chiesa d'Oriente (1054). Nel frattempo un evento notevole fu l'incoronazione di Carlo Magno imperatore a Roma (800) dopo che era stato fermato il suo tentativo espansionista verso la Spagna a Roncisvalle (778) ma non verso la Sassonia (780) dove vi furono evangelizzazioni forzate crudeli e disumane che, insieme ad altre cose, gli fruttarono l'eterna riconoscenza della Chiesa. Nello scenario di grandi rivolgimenti, guerre, invasioni, saccheggi, malattie, si inserisce una profonda crisi dell'agricoltura, la scarsità di manodopera, la grande difficoltà di comunicazione ed una burocrazia ingigantita.
         Inoltre, a parte casi isolati di persone illuminate, i cristiani mostrarono una diffidenza che si tramutò subito in ostilità verso la scienza che era rappresentata solo da personaggi situati all'interno del paganesimo. Nomi noti del Cristianesimo, come Tertulliano (circa 155-222) e Lattanzio (circa 260-340), si scagliarono contro la scienza ed i più tolleranti, come San Basilio (329-379) e San Gregorio Nazianzeno (circa 329-390), avevano una posizione del tipo accetto questa conclusione a patto che non sia in contrasto con le Sacre Scritture. E la scienza diventa così un insieme di conclusioni acquisite che devono solo confermare l'opera divina del Creatore. E dove le cose non erano acquisite non si doveva indagare (fu così che non si portarono avanti gli studi iniziati da Galeno e, ad esempio, la malattia mentale passò immediatamente nel capitolo orrido della demonologia e dell'esorcismo). Dal V - VI secolo le Scritture iniziarono ad essere considerate  con un dogmatismo devastante tanto che anche le persone colte dubitarono e rifiutarono le cose che erano state acquisite. Ad esempio, Agostino rifiutò la teoria degli antipodi e Cosma Indicopleuste (VI secolo) negò la sfericità della Terra e costruì un modello di universo a forma di Tabernacolo.
        A questo proposito, scrivono Hall e Boas Hall                         
con l'espandersi del cristianesimo, a nord, est ed ovest, la cultura medioevale, portando con sé la Bibbia ed i volumi dei Padri della chiesa, cominciò ad assumere la sua forma caratteristica: monca, alimentata dalle reminiscenze di un più glorioso (e tuttavia sospetto) passato clericale e sempre soggetta ai dogmi cristiani.
       A ciò si deve aggiungere la grande delusione che rappresentò il Cristianesimo per il popolo degli oppressi, soprattutto schiavi. Una delle più belle illusioni che il Cristianesimo portava con sé nei tempi eroici era destinata a morire non appena la Chiesa assurse al potere. Non era vero che tutti gli uomini erano uguali ma, a causa del peccato originale, era inevitabile la schiavitù (quale cosa non sarebbe capace di giustificare una religione ben strutturata ?). In questo senso si espressero molti padri della Chiesa tra cui Agostino d'Ippona (354-430). Già nel 324 il Concilio di Granges aveva intimato: "Se qualcuno, sotto il pretesto di pietà, incita lo schiavo a disprezzare il suo padrone, a sottrarsi alla schiavitù, a non servire con buona volontà e rispetto, anatema sia su di lui". E quasi tutti gli ecclesiastici a titolo individuale, e la Chiesa in quanto istituzione, disponevano di ingenti quantità di schiavi. Ancora nel 916, lo schiavo che fuggiva dal suo padrone era assimilato al chierico che abbandonava la Chiesa (Concilio di Altheim). E se qualche ecclesiastico avesse avuto la malaugurata idea di affrancare i suoi schiavi, egli avrebbe dovuto risarcire la Chiesa della quantità corrispondente in denaro. Infine, nella grandissima maggioranza dei casi, lo schiavo non era ammesso al sacerdozio.
        E vi era una economia legata agli schiavi. A partire dal I secolo già Plinio si lamentava della scarsezza di manodopera servile e, a partire dal III secolo il costo degli schiavi sui mercati era diventato sempre più proibitivo a causa del fatto che i mercati stessi erano sempre meno riforniti da merce raccolta in differenti campagne belliche. Furono i barbari che iniziarono a vendere schiavi a Roma e, molto spesso, tra di essi vi erano moltissimi romani. Furono i poveri ad immettere i propri figli nei mercati degli schiavi. Ma la gran quantità di denaro che possedeva l'Impero in epoche precedenti si era esaurita. Il mercato degli schiavi non poteva accrescersi. Inoltre era venuta a gravare sull'Impero una enorme spesa che non rendeva nulla: il finanziamento della Chiesa ed il pagamento degli ecclesiastici. Un esercito, quest'ultimo, di bocche inutili che spessissimo aveva intrapreso la carriera ecclesiastica per ragioni di prestigio e per avere un sicuro stipendio (un vescovo guadagnava sei volte di più di un medico o di un  ingegnere e  cinque volte di più di  un professore di  grammatica o di retorica !). Queste risorse venivano meno per altre imprese, tra cui il finanziamento delle scuole (solo quella di Alessandria fu sostenuta fino al V sec.). Ed era soprattutto dalle Scuole che proveniva il mantenimento materiale di chi faceva scienza (e non solo): ora, non solo occorreva scontrarsi con difficoltà economiche ma anche contro moltissimi autori cristiani che anteponevano la rivelazione alla ragione, la fede alla  conoscenza.
      In questo desolante paesaggio qualche cosa però si mosse nel senso vero della liberazione dell'uomo. Gli ordini monastici, generalmente rifuggenti dalla Chiesa ufficiale, quella costantemente alleata con il Potere, rappresentarono un'oasi di civiltà e progresso civile e morale. A partire da San Benedetto (480-547) che, ricordiamolo, fu perseguitato proprio da svariati chierici ormai assestati nel loro potere, e che fondò (529) la regola dell' Ora et labora nella quale per la prima volta dalle squalificazioni di Platone  il lavoro manuale riacquistava una dignità pari alla preghiera (superando in questo gli oppressivi e discriminatori significati che, a partire dall'antichità classica, proprio al lavoro erano assegnati), continuando con i cistercensi e quindi con i francescani, si iniziò una tradizione di mantenimento, e sviluppo di tecniche artigianali tra cui, a partire da un certo momento, anche la conservazione e la trascrizione di svariati testi dell'antichità. Ma qui occorre fare un attimo di attenzione perché il ruolo dei monaci nella conservazione non deve essere enfatizzato più di tanto. Se è vero che da un certo punto vi fu una certa cura per il sapere da parte di alcuni ordini monastici, tale cura arriverà troppo tardi quando già il patrimonio culturale era stato irrimediabilmente distrutto (da Carlo Magno in poi sarà la stessa Chiesa nel suo complesso a conservare ogni testo di cultura classica a quel punto rimasto), inoltre riguardi li avranno quelle opere più affini ai loro interessi, quelle teologiche e magico teologiche, e non certo quelle scientifiche che saranno completamente dimenticate quando non distrutte o ridotte a palinsesto. Infine il grande impegno dei primi ordini monastici sulla dignità del lavoro fu ridimensionato dalle gerarchie ecclesiastiche. In particolare, nel secolo XIII, Tommaso d'Aquino sosteneva che "se le regole dell'ordine non contengono particolari norme sul lavoro manuale, i religiosi non sono altrimenti obbligati ad esso".  Con il passare degli anni anche questi ordini monastici passarono al puro conservatorismo. Non sarebbero potute durare predicando lavoro e povertà, agli antipodi degli sfarzi delle gerarchie. Si pensi solo che ai francescani fu concesso il privilegio dell'Inquisizione (insieme ai domenicani) mentre Dolcino veniva fatto a pezzi vivo e poi bruciato.
        E quei barbari ai quali ho accennato più su fecero alla fine crollare l'Impero d'Occidente, ed insieme ad esso quei barlumi di scienza che qua e là si mantenevano e quella tecnica (acquedotti, strade, urbanistica, edilizia, ...) che invece aveva progredito di molto. Questi invasori avevano distrutto le strutture economiche, sociali e politiche distruggendo ogni possibilità materiale e morale di ricerca ma, come vedremo, a loro si deve l'introduzione di tecniche che  fornirono via via la base di un modo di vita materialmente superiore a quello che si aveva nell'età classica (pantaloni al posto della toga, burro al posto dell'olio di oliva, sci, barili, botti, coltivazione della segale, dell'avena e del luppolo, staffa per cavalcare, ... ). Le  grandi invasioni del V secolo posero fine anche alla sola conservazione della cultura ellenistica. Nel periodo di tali invasioni, proprio per i caratteri dei popoli che entravano dal nord nel vecchio bacino del Mediterraneo, non si assiste a riproduzioni della scienza antica o a scimmiottamenti delle forme di conoscenza ellenistica ma si iniziano ad intravedere i segni di un nuovo modo di curiosità scientifica. Nel resto dell'Impero, quello di Bisanzio, pur privato della sua anima vivificatrice di Alessandria, si ebbe una vita scientifica che ancora si muoveva, anche se a rilento.
       Come accennato, si tentava (e sarà sempre più difficile) la conservazione di quanto fatto in precedenza. I commentari dei classici andavano per la maggiore e da commentario a commentario, il classico spariva. Si facevano dei compendi ma anche questi sono sempre pili succinti e, anche qui, l'autore originale spariva. In questo modo, comunque, si riuscirono almeno a conservare quelli che si possono definire alcuni risultati della scienza greca, quelli della pratica delle professioni. Il metodo, la ricerca, si perse. Infatti: che senso può avere, in matematica, conservare una montagna di enunciati di teoremi privati delle dimostrazioni ? E l'enunciazione dei problemi cosa poteva rappresentare se non si capivano più nemmeno i termini tecnici dei medesimi ? Qualche testo religioso-filosofico resistette più di quelli tecnici, ma la cosa durò poco anche qui perché la cultura è impresa complessiva che non permette abbandoni di alcuni capitoli. Si sente negli scrittori di questo lungo periodo come un senso di rassegnazione, di incapacità di porsi al livello dei maestri, una sfiducia nella reale possibilità di conoscere. Con il trascorrere del tempo, anche la voglia di tramandare i classici venne meno. Questo processo, alla fine, soprattutto in Occidente, comportò la completa sparizione delle opere originali delle quali si perse traccia. Il pensiero che ancora nel V secolo si muoveva nelle difficili problematiche della metafisica,  nel VI e VII balbetta le prime nozioni di grammatica e logica e, mentre un poco indietro nel tempo, gli scrittori si moltiplicavano, ora vi sono immensi deserti silenziosi. Ricordo solo i nomi dei più noti compilatori, scrittori di commentari e scrittori a vari livelli di erudizione: Severino Boezio (480-525), Aurelio Cassiodoro (475-570), Isidoro di Siviglia (570-636), Beda il Venerabile (673-735), ed altri ancora più mediocri fino all'epoca di Carlo Magno (VIII secolo). Non si tratta tanto di ultime elaborazioni di una generazione arrivata alla fine della propria creatività mentale ma dei primi balbettii di una nuova infanzia che si risveglia alla curiosità scientifica. Le cose andarono in modo diverso in Oriente dove la scienza greca si mantenne di più nelle opere originali e, dopo la caduta di Alessandria sotto il dominio arabo, l'intero patrimonio dei classici greci passò agli arabi che seppero farne molto migliore uso di quanto non se ne abbia fatto l'Occidente Cristiano.
       Dalla fine del mondo alessandrino passarono un migliaio d'anni prima che si ricominciasse effimeramente a costruire qualcosa di scientifico: Simplicio, Filopono, Eutocio, ... Altri mille anni per arrivare a quello che chiamiamo Rinascimento. Ecco, deve essere ora chiaro che la parola è riferita alla rinascita di quel mondo, della rivoluzione scientifica che, con Russo, è tuttora dimenticata. Ogni autore di quel Cinquecento e Seicento richiama le opere del passato, quelle poche rimaste ed arrivate mediante ulteriori spoliazioni dei crociati che le rapinavano a Costantinopoli, arrivate da commerci, da scambi diretti con il mondo arabo (Spagna e Sicilia) e quindi con enormi difficoltà tradotte e riportate alla luce.
         Mentre in Occidente la scienza era ridotta a trovare esempi della verità della morale e della religione, a ricavare simbologie che rappresentassero questioni morali (la Luna era paragonata alla Chiesa perché rifletteva la luce di Dio; il vento era l'immagine dello spirito; il numero 11, andando oltre il numero dei comandamenti, era il simbolo del peccato), nell'Oriente, diventato arabo, si coltivava, si traduceva e si sviluppava la scienza dei classici greci. Cosicché, col passare dei secoli furono proprio gli arabi che divennero (come dice Koyré) maestri ed educatori (non meramente intermediari) dell'Occidente cristiano. In questo senso è sintomatico il fatto che le prime traduzioni dei classici greci in latino, non furono fatte direttamente dal greco ma dalle traduzioni che gli arabi già avevano fatto in arabo. E questo per due motivi di fondo: da una parte nessuno o quasi, in Occidente, conosceva il greco e dall'altra nessuno sarebbe stato in grado di capire e quindi tradurre le complesse opere di Aristotele o di Tolomeo, per fare solo due esempi.
        E così per circa 1000 anni la scienza dell'epoca d'oro ci fu trasferita dagli arabi che dettero anche importantissimi contributi.
        Il Rinascimento, a lato delle mutate condizioni socio-economiche, si fondò solo sulla riscoperta dei classici greci tramandati dagli arabi. Valgano per tutti le parole di Giordano Bruno:
Sono amputate radici che germogliano, sono cose antique che rinvengono, sono veritadi occulte che si scuoprono: è un nuovo lume che, dopo lunga notte, spunta all'orizzonte ed emisfero de la nostra cognizione, e a poco a poco s'avvicina al meridiano de la nostra intelligenza.
e serva una breve considerazione sulle radici a cui si riferisce Bruno. Sono quelle le nostre radici e non altre, sono quelle della cultura greca ed ellenistica che con fatica, lacrime e roghi, i nostri filosofi e scienziati del Seicento hanno riscoperto ed elaborato. Non certamente quelle di chi ha continuato a distruggere con colpi di maglio quel lume che mi auguro arrivi al meridiano dell'intelligenza di ogni essere umano per conservarci il Rinascimento contro l' oscurantismo e la superstizione di caste millenarie e di loro cantori.
Continua
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