L'espandersi dell' Impero di Roma mise fine alle grandi conquiste civili e scientifiche dell' ellenismo. Qualcosa restò ed anche qualche personaggio di rilievo, come Claudio Tolomeo, ma inesorabilmente, a partire dalla seconda metà del secondo secolo a.C. iniziò un inarrestabile declino. Le diverse interpretazioni che sono state fornite a proposito di questo declino, concordano su alcuni punti. Innanzitutto fu graduale; iniziò all'incirca intorno al II secolo a.C. e si accentuò molto dopo il II secolo d.C.; in pratica il processo di estinzione può dirsi concluso a cavallo del V e VI secolo d.C. Vediamone le cause e facciamo qualche considerazione. Allo scopo alcuni riferimenti possono essere utili.
Nel 212 a.C. era stata saccheggiata Siracusa.
Per molti anni Roma continuò a distruggere e saccheggiare molte città di cultura alessandrina. Gli abitanti venivano resi in massa schiavi di Roma ed erano la merce colta per i ricchi patrizi che li assegnavano come istitutori per i figli i quali, crescendo, erano un poco meno barbari.
I libri, depredati da ogni biblioteca meno che da quella di Alessandria, facevano parte del bottino ma spesso, a parte gli schiavi greci, non vi era chi fosse in grado di leggerli, anche se erano un bell'ornamento in casa dei ricchi barbari di Roma. Servivano divulgazioni senza troppi conti e complicazioni. E ciò gradualmente si fece. Apprezzate erano la letteratura e la poesia. La stessa filosofia suonava strana e forse pericolosa per il potere quando era compresa; e proprio perché era complicato seguire le differenti argomentazioni ci si ferma su Aristotele, Platone e Pitagora (quest'ultimo, grazie alla numerologia dei neopitagorici, permette ancora una flebile esistenza della matematica). Il ciclo distruttivo si concluse nel 146 a.C. quando Roma si impadronì di tutto con la distruzione di Cartagine e Corinto (con il seguito poi del saccheggio di Rodi, uno degli ultimi baluardi ellenistici, del 46 a.C., e della conquista di Alessandria (anche se una qualche autonomia fu concessa alla città, tanto da sopravvivere addirittura all'Impero romano) del 30 a.C., con i sovrani ellenistici (Tolomeo VIII) ossequienti al padrone romano che aiutarono con la cacciata della comunità greca. Vi fu una diaspora, una fuga, soprattutto verso le uniche strade aperte, quelle che portavano ad Oriente. Ed una comunità scientifica, sradicata dal suo contesto è finita per sempre. Si mantengono le singole persone ma poi tutto finisce quando si secca la scuola come fonte.
Una delle drammatiche conseguenze è la caduta dell'economia dell'intera area mediterranea, precedentemente facente capo proprio ad Alessandria ed il benessere economico è una delle basi su cui può svilupparsi la cultura. Ora è sempre Alessandria che produce merci e le esporta a Roma (più di quante ne partano da Roma verso Alessandria, come attestano varie testimonianze dai porti di Roma) ma i benefici di tali commerci tornavano a Roma mediante il sistema di tassazione.
Con Roma, alcuni fenomeni di irrazionalismo, mantenuti al margine dalla cultura positiva, avanzarono inesorabilmente. Gli apparati di potere dei regni ellenistici nati dalla diaspora avevano optato per divinizzare l'autorità cui si dedicavano culti appositi; lo Stato aiutava il diffondersi di superstizioni; le prime conoscenze chimiche mescolate con la sempiterna magia originavano l'alchimia; la complessa e possente astronomia diventava uno straccio di astrologia; la Fortuna cieca diventava una divinità che si sbarazzava degli dèi antropomorfi; a fronte degli scienziati emigrati in Oriente, dall'Oriente arrivavano culti misterici misti a Vangeli esotici che annunciavano la Redenzione, a magie e riti particolari. Le pseudoscienze avanzarono inesorabilmente e restano in ottima salute anche oggi. Vi era stato un passaggio della scienza dalle mani di uomini liberi e rispettati a funzionari pagati dallo Stato ed ossequienti al sovrano. La scienza divenne il commentario di un tale autore a manuali estremamente semplici che via via sostituivano gli originali che si perdevano inesorabilmente. La letteratura invece, nella sua veste di retorica ad imitazione dei classici antichi, prosperava e diventava anche palestra per maestri di virtù e formatori del carattere.
Quindi, a partire dal II secolo a.C, si erano iniziate a diffondere nell'Impero forze irrazionali di ogni tipo, sette e culti tra cui Zoroastro, Atti, Mitra (è storicamente provato che il Dio Mitra nacque da una vergine in una grotta un 25 dicembre, che fu adorato da pastori e Magi, che fu perseguitato, che fece miracoli, che fu ucciso e resuscitò dopo il terzo giorno, ..., e che il rito centrale del suo culto era l'eucarestia), Cibele, Iside, Osiride, magie ed astrologie (i taumaturghi ottengono un vasto credito; il movimento gnostico penetra a fondo in tutti gli ambienti, quelli pagani, ebraici, cristiani, greci e barbari; si accettano le rivelazioni sulla creazione; l'alchimia fa al sua comparsa e si offre agli iniziati; l'ermetismo inizia a penetrare dovunque; le qualità richieste per conseguire il sapere non sono più intelligenza, spirito d'osservazione e obiettività ma cuore puro e fede cieca, oltre ad una immaginazione delirante).
Tra i vari movimenti irrazionalisti che avanzavano si preparava il campo per la nascita del Cristianesimo che fu il colpo di grazia a ciò che restava del mondo ellenista. Da questo movimento mistico furono sferrati attacchi durissimi, anche cruenti contro ogni forma di cultura classica, particolarmente se scientifica. A partire dal III secolo d.C. riuscirono a fare il deserto nel mondo completando l'opera di distruzione dell'ultimo tempio di quella cultura, la biblioteca di Alessandria, con i noti fatti tragici che videro il linciaggio della matematica Ipazia quando, nel 415, ai Ctesibio ed agli Euclide di Alessandria si passò a San Cirillo della medesima città. Come dice Bourgey:
Fu questo stato d'animo a favorire lo sviluppo delle scienze occulte, astrologia e alchimia, e anche quello della magia; questa era sempre stata praticata clandestinamente, soprattutto fra gli ignoranti, ma nei primi secoli dell'èra cristiana conquista l'ambiente colto e si rivela alla luce del sole. La scienza stessa è direttamente colpita: l'astrologia fa concorrenza all'astronomia, l'alchimia soffoca le prime manifestazioni della chimica, la botanica degrada in una farmacologia ingombra di ridicole ricette, la zoologia in collezioni di "meraviglie" le une più fantastiche delle altre. I filosofi non si sanno difendere da quest'ondata antirazionalista: i Platonici sono in preda a un totale misticismo, gli Stoici ammettono i presagi e le influenze astrali; secondo loro, come secondo Plinio il Vecchio, vediamo sostituirsi allo sforzo di determinare le leggi, cioè i rapporti costanti tra i fenomeni, la ricerca di una "causa" misteriosa e universale che agisce a distanza e produce i fenomeni.
Intanto in quel II secolo a.C. a Roma si fece strada l' epicureismo che avrà grande influenza almeno fino all'avvento del Cristianesimo. La filosofia di Epicuro è centrata sulla vita interiore e la felicità. Quest'ultima si raggiunge liberando l'uomo dalle superstizioni dell' astrologia e della religione, soprattutto se di Stato, ed educandolo alla libertà di pensiero. Uno dei pochi frammenti di Epicuro che abbiamo è stato trovato ad Ercolano e dice: "Sempre ti sia d'aiuto il quadrifarmaco e cioè: che la divinità non deve recare timore, che la morte non è paurosa, che facile a procurarsi è il bene, facile a sopportare il male". Questi insegnamenti erano inconciliabili con le istituzioni religiose di Roma che proprio dal timore degli dèi e della morte traevano il loro potere che, a sua volta, era da sostegno a quello dei nobili presenti soprattutto nel Senato. Gli epicurei furono cacciati da Roma con accuse infamanti e l'attacco proseguì anche contro circoli culturali che andavano formandosi ad ispirazione epicurea o comunque con interessi filosofici importati dalla Grecia: il circolo degli Scipioni o degli ellenizzanti che faceva capo a Scipione l'Africano (anch'egli esiliato) ed il circolo dei populares che faceva capo ai democratici Gracchi. Uno degli schiavi tratto a Roma da Atene fu lo storico Polibio (204-122 a.C.) che divenne membro del circolo degli Scipioni. Diceva Polibio, che pure ammirava Roma:
«Oso avanzare l'ipotesi che proprio ciò che il resto dell'umanità [la Grecia colta, ndr] deride è il vero fondamento della potenza romana: la superstizione. Essa è stata introdotta in tutti gli aspetti della loro vita pubblica e privata, e con ogni artificio atto ad impressionare l'immaginazione al massimo grado. Molti si meraviglieranno nell'udire questo, ma la mia opinione è che tutto ciò è rivolto alle masse. Se fosse mai possibile fondare uno stato nel quale ogni cittadino fosse un filosofo, si potrebbe forse fare a meno di cose del genere, ma in ogni paese le masse sono instabili, piene di desideri illeciti e di violente passioni. Tutto ciò che possiamo fare è dunque di tenerle a freno con il timore dell'invisibile e con altri inganni del genere. Non a caso, ma a ragion veduta, gli antichi insinuavano nel popolo il culto delle divinità, e i timori della vita ultraterrena. La follia e la inettitudine sono nostre, giacché facciamo di tutto per disperdere tali illusioni».
E Polibio era buon profeta se nei secoli seguenti la dottrina della religione come strumento politico acquistò credito crescente, fino alla catastrofe finale. Come gli epicurei, anche i cristiani furono accusati di ateismo perché rifiutavano la debita adorazione all'imperatore, ma infine - nello stabilire un vincolo con la Chiesa cristiana - Costantino agì per gli stessi motivi terreni che, circa mezzo secolo prima, avevano spinto Aureliano (270 d.C.) ad allearsi con gli adoratori del sole, quelli stessi che spingevano Marco Aurelio a consacrare il tempio di Mitra. E' la religione che tiene buona la gente mentre il potere fa ciò che vuole e per poter far questo alimenta la religione.
A lato dell'epicureismo in Roma ebbe seguito anche un'altra filosofia rivolta alla vita interiore, lo stoicismo, molto più accetto dai ceti dirigenti e politici di Roma, che passò da essere critica del potere aristocratico ed oligarchico di Platone a roccaforte del conservatorismo alla quale aderirono anche Marco Aurelio e Seneca (quest'ultimo predicava il disprezzo per i beni terreni mentre ammassava fortune da prestiti usurai). Per gli stoici astrologia e divinazione erano pratiche degnissime e gli astri erano delle divinità. Un'altro mondo rispetto all'epicureismo.
E Seneca, persona colta, è ancora da citare come esemplificazione di cosa era diventata la scienza della natura a Roma. Nelle sue Naturales Quaestiones brilla nelle più stupide banalità, il finalismo stoico: perché esistono gli specchi ? Perché ci si possa rispecchiare. Perché vi sono tuono e folgore ? Per incutere timore agli uomini. E così via nella strage di intelligenza.
Da ultimo anche il neoplatonismo ebbe dei seguaci a Roma e merita di essere ricordato perché restò l'unica corrente filosofica antagonista al Cristianesimo quand'esso diventò religione di Stato. Tra i neoplatonici l'egiziano Plotino (III secolo d.C.) insegnò filosofia a Roma. Insegnò cioè la sua metafisica oscura, prolissa, oracolare e addirittura ridicola tanto da essere apprezzato da Agostino (ed anche da Tommaso d'Aquino) che lo avrebbe visto bene tra i cristiani i quali debbono appunto a Plotino gran parte del loro pensiero. Per Plotino tutto è utile all'Universo, sono utili i mali come la povertà e le malattie che giovano a chi li subisce. Inoltre le città ben governate non sono quelle composte di uguali. Sarebbe come se si biasimasse un dramma perché tutti i suoi personaggi non sono eroi, e qualcuno di essi è un servitore, o un uomo rozzo, o uno che ha cattiva pronunzia: se si sopprimono queste parti inferiori, il dramma perde la sua bellezza, giacché senza di esse non può apparire completo. Per altri versi la natura è contemplazione, è la bellezza con essenza divina, è un'anima mossa da un'anima antecedente, ha in sé un pensiero contemplante silenzioso. E con questo anche la matematica che in Platone aveva avuto un ruolo rilevante, nei neoplatonici sparisce (accade sempre così per le parti più faticose ed impegnative di qualunque pensiero). Tanto erano convincenti le parole di chi anticipava la Trinità (l'Uno, l'Intelletto e l'Anima) che l'imperatore Gallieno pensò di fondare una città vicino Napoli dal nome Platonopoli, città che nel IV secolo Giuliano l'Apostata, anch'egli neoplatonico, cercò di restaurare. Ed anche lo stesso Agostino d'Ippona trasse ampia e copiosa ispirazione dal neoplatonismo e assorbì molta sua parte nel Cristianesimo (il disprezzo cristiano dell'esperienza il guardare dentro di sé e non fuori, l'individualismo sono figli del neoplatonismo e di Agostino). C'è da aggiungere, con Singer, che il modo di pensare neoplatonico fu portatore nell'ambito della scienza di due modi di pensare, uno dei quali nefasto: il ragionamento per analogia (attenzione non l'analogia spesso utilmente utilizzata in ambito scientifico, ma il metodo dell'analogia che dovrebbe avere forza dimostrativa). L'altro modo di pensare, una sorta di dottrina, condiviso con lo stoicismo, e conseguente per i neoplatonici al metodo dell'analogia, era appunto il considerare l'analogia tra l'universo (macrocosmo) e l'uomo (microcosmo) in quanto l'uno può essere pensato come riflesso dell'altro (per i neoplatonici, vicini in questo ai cristiani, era l'universo ad essere fatto per l'uomo in quanto suo essere privilegiato, mentre per gli stoici era l'uomo ad essere fatto per l'universo). Questa dottrina passerà agli arabi che tramite l'Islam le diffusero nell'Occidente cristiano.
In definitiva questo era il panorama filosofico di Roma e, a parte l'epicureismo, sempre soccombente rispetto al potere, si può ben intendere che non vi era alcuna disposizione filosofica nei riguardi della scienza. Vi era la convinzione che tutto fosse stato fatto e questa convinzione circolava quando tutto era stato dimenticato. Il Cristianesimo, come accennato, convogliò l'intero pensiero irrazionale emergente da più parti. In una situazione di decadenza generale a cui si accompagnano incertezze e miseria avanzante, esso aiutò a far prevalere le esigenze religiose su quelle critiche, la fede sulla ragione. Il problema della fame si trasferì a quello della morte ed alla necessità di salvare l'anima e così i Padri della Chiesa bandirono tutto ciò che, come la scienza, non davano nulla alla salvezza dell'anima. La scienza poteva essere al massimo una causa seconda che poco aveva da sparire con la causa prima che era Dio. Questo atteggiamento vale a spiegare perché così vivaci pensatori, abilissimi nell'affrontare dispute teologiche, non abbiano prodotto nulla in ambito scientifico ed abbiano così malamente proteso i propri nervi. Solo la matematica, grazie a quanto sostenevano i neoplatonici a proposito della sua vicinanza con il mondo della divinità, era in qualche modo accettata (ma non coltivata). Va ricordata in tal senso la posizione di Agostino di Ippona (354-430). Egli era in cerca di qualcosa, all'interno dell'animo umano, che potesse resistere ad ogni dubbio scettico. Egli trova ciò e nelle verità della logica-matematica e nei valori morali. Questi valori e conoscenze sono così saldi che debbono provenire dall'esterno dell'uomo, debbono rappresentare una emanazione di Dio dentro di noi. In quel clima di caccia agli eretici ed ai pagani, osserva Gliozzi, sembra quasi che Agostino voglia salvare a priori i cultori delle matematiche. Anche se, per la verità, nelle sue opere rintracciamo un vero interesse alle questioni matematiche quando sembra dare un primato all'aritmetica rispetto alla geometria e quando discute, in contrasto con Aristotele, dell'attualità dell'infinito dei numeri interi ancorandolo, ahimé, a ragioni teologiche. Quindi, come è naturale, in questo dilagare di impoverimento culturale a cascata, la prima vittima designata era proprio la matematica che faticosamente si era fatta strada uscendo dal fecondo terreno geometrico, intersecandolo con l'aritmetica, con i metodi analitici e con notazioni più avanzate. Tutto finito.
In ciò che ho detto abbiamo visto dei romani colti che si avvicinavano a quella cultura ma ne capivano molto poco. Anche chi secoli dopo, come Seneca e Plinio, era affascinato dalle opere scientifiche, riusciva a leggere solo le conclusioni tralasciando procedimenti logici e metodo. Descrivevano i risultati eclatanti, come oggi fanno i giornalisti che parlano di scienza, ma dimenticavano i principi, la teoria, la fatica e la scuola che li produceva. Anche un tecnico come Vitruvio (che pure ammette la difficoltà di capire le fonti), pur vicinissimo alle fonti medesime, riesce a dire cose penose sulla scienza che avrebbe dovuto almeno lontanamente conoscere.
Questa catastrofe culturale, questo declino generalizzato, si aggravò proprio con l'avvento del Cristianesimo. Le esaltazioni religiose e magiche richiedono per la conoscenza: che si sia disponibili alla fede, che basta essere semplici e pieni di immaginazione, che gli sforzi della ragione non conducono a nulla, che l'intelligenza, lo studio, la osservazione non servono a nulla, che c'è Qualcuno, che tutto ha fatto, che pensa a noi.
Astrologie, alchimie, magie e varie superstizioni sono sempre esistite ma è soprattutto con l'avvento del Cristianesimo che possono uscire dalle pratiche clandestine e diventare patrimonio dell'ambiente colto.
Come sia potuto accadere che dalla razionalità del periodo d'oro alessandrino si sia passati a questa brutale decadenza lo possiamo intuire dalle parole di Boll, Bezold e Gundel nella loro Storia dell'astrologia:
Privo di simpatie mistiche, Aristotele, malgrado la sconfinata vastità dei suoi interessi, non si occupa della teoria astrologica. La sua dottrina dell'etere come quinto elemento sovraterreno divide nettamente il mondo al disotto della Luna dalla regione delle stelle. Eppure, la sua ipotesi che tutti i movimenti debbano in definitiva originarsi dal primo mobile, la sfera delle stelle fisse, e che quindi ogni mutamento avvenuto sull'imperfetta Terra trovi la sua causa in mutamenti numericamente stabiliti nel perfetto mondo superiore, costituisce per l'astrologia una base non meno feconda di sviluppi che la sua visione di una struttura cosmica murata e saldamente conclusa; visione che, malgrado ogni obiezione della scuola democritea, si prolunga e sopravvive fino all'epoca di Giordano Bruno.
Così, a poco a poco, maturano i tempi per l'accettazione della religione astrale e delle credenze astrologiche orientali. E' nel periodo dell'ellenismo che queste dottrine celebrano il loro trionfo in Grecia. Solo poco tempo prima, il grande astronomo e amico di Platone, Eudosso, che pur conosceva l'astronomia e la meteorologia babilonese, aveva negato ogni credito ai «Caldei », cioè agli astrologi ed astromanti dell'Eufrate. Ma già in Teofrasto, allievo di Aristotele, troviamo ammirazione, o almeno stupore attonito, per la loro arte. Il poeta delle costellazioni e dei pronostici del tempo, Arato (intorno al 275), ignora completamente l'astrologia; eppure, la stessa popolarità, per noi incomprensibile, del suo poema è un indizio della crescente attenzione rivolta dai Greci al cielo stellato. E, alla fine del periodo ellenistico, le legioni vittoriose di Cesare portano il Toro come figura zodiacale di Venere, in quanto capostipite della gens Julia, in tutto il mondo conosciuto; Augusto fa pubblicare il proprio oroscopo e battere monete con il simbolo del Capricorno, il segno sotto il quale ha visto la luce; Orazio deve fugare gli scrupoli astrologici di Mecenate. La vittoria dell'astrologia orientale può dirsi ormai decisa: essa è stata riportata nei tre secoli da Alessandro ad Augusto.
Come ciò sia potuto avvenire, permette di spiegarlo l'intero corso di sviluppo, che qui possiamo soltanto sfiorare in brevi accenni, dell'ellenismo. Nella prima metà di questo periodo, l'elemento greco è quello che irrompe vittorioso nell'Oriente e, con enorme forza di espansione, nel corso e per riflesso delle spedizioni di Alessandro riempie il mondo della propria lingua e cultura. Ma, nella seconda fase, le titaniche forze primordiali dell'Asia si ribellano con vigore incorrotto agli invasori: l'aristocrazia greca, che naturalmente domina
più nelle città che nelle campagne sconfinate, subisce in misura crescente l'influsso delle antiche religioni e abitudini di vita orientali. Ha così inizio la fatale evoluzione che finirà per distruggere il carattere peculiare della «Grecità»: gradatamente questa si allontana dal Logos, la conoscenza scientifica, onore e vanto del suo spirito, per abbracciare la Gnosis, la conoscenza mediante la visione, l'estasi, la rivelazione. Ancora agli inizi del II secolo a.C., il pensiero greco ha la forza di invadere il suolo di Babilonia con le sue più ardite dottrine; l'unico sostenitore a noi noto del sistema cosmico «copernicano» propugnato da Aristarco, Seleuco di Seleucia sul Tigri, riceve il soprannome di «caldeo», sia che fosse veramente un babilonese ellenizzato o un greco oriundo della Mesopotamia. Ma in Posidonio, il grande stoico, all'alba
del I secolo a.C., l'astrologia è al vertice della contemporanea scienza greca: chiaro segno di come i tempi siano cambiati.
Lo stesso accade per le concezioni religiose, per le quali le antiche divinità greche significano ormai ben poco; ciò spiega il trionfo, da un lato, del culto della ciecamente imperante Tyche, la dèa della Fortuna, il cui umore capriccioso fa temere ma anche sperare di tutto ai comuni mortali nelle tempeste dell'èra dei Diadochi e, più tardi, della rivoluzione romana, dall'altro del culto di Ananke o Heimarmene, il Destino inesorabilmente e spietatamente fissato dall'eternità, che, concepito in termini astrologici, fa ricadere su ogni testa mortale il peso di tutto l'universo. Alla magia e alle religioni soteriologiche si chiede, come il più importante servigio che possano rendere all'uomo, di liberarlo da un simile fardello. Da Tyche ad Heimarmene, da questa alla magia e ai culti misterici e catartici - ecco, ridotto ai suoi tratti più
elementari, il ciclo storico della religione ellenistica. (...)
Come la religione, così la scienza. Non solo la speculazione filosofica, con particolare riguardo all'influente neoplatonismo, apre le porte all'astrologia malgrado la fiera opposizione di Plotino; medicina e botanica, chimica, mineralogia, etnografia, insomma tutte le scienze della natura, ne sono più o meno imbevute, e tali rimangono fino al tardo Rinascimento. L'alchimia, anticamera della chimica, è in realtà la sorella minore della scienza astrologica, con la quale ha in comune tanti misteri.
In linea generale si può dire che, dentro all'Impero di Roma, le richieste sono ben differenti da quelle del rigore scientifico. Leggiamo a proposito del pragmatismo dei romani cosa scrive Stahl:
Quando i Greci colti incominciarono ad incantare i nobili e i nuovi ricchi di Roma, dovettero accorgersi senza dubbio che i loro manuali erano perfettamente adatti ai loro scopi. Si può quasi supporre che i loro testi venissero concepiti non soltanto per venire letti dai Greci, ma anche per venire tradotti e parafrasati in latino. Il nobile romano era ben lieto di acquisire un'infarinatura delle discipline greche astratte, se così imponeva la moda: ma voleva soltanto gli elementi essenziali, poiché non amava perdere tempo in cose troppo complicate. [...]
Il successo dei manuali fu dovuto alla loro praticità(1): i titoli più numerosi sono quelli di opere che si occupavano di agricoltura, arte militare, diritto e retorica. Si conoscono inoltre i titoli di opere riguardanti quasi tutti gli argomenti possibili e immaginabili che avevano un interesse per i Romani: farmacologia, tossicologia, metrologia, rilevamento topografico, tradizioni popolari relative ai sogni, alle pietre preziose e alle arti divinatorie di ogni genere; libri per eruditi e specialisti sulla filologia, l'ortografia e parecchi altri argomenti d'interesse antiquario; e infine, manuali per tutti i mestieri e per tutte le professioni.
Un altro tipo di libro popolare molto vicino al genere manualistico romano, sebbene a stretto rigor di termini non vi appartenesse, era la riduzione o epitome. Di solito, i Romani appartenenti alle classi più elevate erano troppo indaffarati o troppo presi da altri interessi per intraprendere la lettura di opere voluminose; furono loro a creare la richiesta di breviaria di ogni genere, riduzioni drastiche che ben di rado soddisfano 1a curiosità del lettore per quanto riguarda il contenuto e le qualità letterarie dell'opera sunteggiata. Le riduzioni offrivano comunque un altro vantaggio: riducevano di parecchio la spesa che sarebbe stata necessaria per fare ricopiare un manoscritto di numerosi rotoli. Come in Grecia i commenti alle opere famose soppiantavano spesso i testi che analizzavano, a Roma le riduzioni e le epitomi delle riduzioni, come quelle della Storia di Roma di Tito Livio, fecero cadere nell'oblio i voluminosi testi originali. Nel terzo e nel quarto secolo dell'era cristiana ... queste riduzioni incominciarono ad esercitare un'influenza notevole sulla tradizione manualistica latina. [...]
Non furono necessari grandi sforzi per convincere i Romani dell'utilità pratica della tradizionale preparazione retorica dei Greci. Il perfezionamento dell'abilità oratoria era sempre stato considerato un fattore importante nella preparazione degli uomini politici romani. [...]
Le cose andarono in modo completamente diverso, invece, per quanto riguardava il quadrivio matematico greco. I genitori romani, rozzi e ostinati, non riuscivano a immaginare quale contributo potessero dare la matematica astratta, l'astronomia teorica e la teoria armonica alla preparazione di un giovane destinato a svolgere incarichi amministrativi o a prendere parte attiva alla creazione dell'impero. I pedagoghi greci sostenevano ... che la matematica aguzzava l'intelligenza; e Polibio faceva osservare ai suoi aristocratici ospiti che la conoscenza dell'astronomia poteva tornare utile a un generale che dovesse spostare le sue legioni da un territorio all'altro. Le argomentazioni dei Greci ebbero la meglio, almeno durante il periodo in cui lo stimolo culturale fu più acuto: nelle scuole romane venne introdotto lo studio della matematica astratta, come attestano gli scrittori che ricordano di essersi annoiati, moltissimo durante le lezioni di aritmetica e di geometria. Possiamo tuttavia sospettare che questi studi teorici venissero tollerati a Roma non tanto per il loro valore intrinseco, quanto perché era di gran moda assumere pedagoghi che educassero i giovani secondo i metodi, greci. Altre reminiscenze che affiorarono negli scritti di diversi autori latini riguardano casi divertenti, non dissimili del resto da quelli che si incontrano anche nella letteratura greca: un genitore dalla mentalità molto realistica interroga il figlio sui suoi studi matematici e poi si chiede quale applicazione potranno mai trovare negli affari commerciali e nell'amministrazione del patrimonio familiare. Vi è però una differenza significativa: i lettori greci solidarizzavano con il figlio, i lettori romani con il padre. Poteva accadere che qualche nobile romano deprecasse l'importanza eccessiva attribuita alle discipline pratiche, come fa anche Orazio nella sua Ars poetica; ma la matematica pura, a Roma, si trovò sempre in una posizione precaria: dapprima vi fu una battaglia accanita per inserirla nei programmi di studio, poi venne di moda e allora fu tollerata; e infine, durante l'impero, la sua importanza nelle scuole declinò inesorabilmente.
I patrizi romani non erano contrari alle discipline che potevano contribuire a rendere più acuta l'intelligenza dei giovani. Anche se negavano tale valore alla matematica, lo riconoscevano agli studi filosofici. Non si poteva pretendere che la filosofia metafisica elaborata dai Greci solleticasse gli istinti dilettantistici dei Romani [...]
I manuali costituirono il ponte attraverso il quale vennero importate a Roma le varie discipline greche. Il sistema più agevole per adattare una disciplina ai gusti e alle esigenze dei lettori latini consisteva nel preparare la traduzione di un manuale. Nei casi in cui possediamo un originale greco e possiamo confrontarlo con una traduzione o con un adattamento in latino, abbiamo modo di osservare che, quando la materia era difficile, le traduzioni erano molto libere: omettevano o parafrasavano le discussioni complicate e introducevano numerosi esempi per facilitare la comprensione da parte del lettore. [...]
Per i Greci, i manuali divulgativi rappresentavano una scienza di basso livello, ma a Roma esisteva un unico livello di conoscenza scientifica: il livello dei manuali. Anche i Romani dotati della più viva curiosità intellettuale come Lucrezio, Cicerone, Seneca e Plinio, si accontentarono di attingere dai manuali la loro conoscenza della scienza greca, e non vi apportarono contributi originali. La scienza manualistica latina era antiquata fin dalla sua nascita, poiché era una sintesi di ricerche e di teorie greche che avevano già cento, duecento o trecento anni quando vennero importate a Roma. Dato che in maggioranza i compilatori latini non avevano la minima attitudine per gli studi teorici, le tradizioni manualistiche della scienza greca subivano un nuovo deterioramento ogni volta che passavano per le mani di un nuovo compilatore. La mentalità di Cicerone illustra in modo perfetto quale fosse la posizione dell'intellettuale romano nei confronti della scienza teorica. All'inizio delle Tusculanae, egli si dichiara lieto che, mentre i Greci esaltano la geometria pura, i Romani applichino giudiziosamente questo studio alle misurazioni ed ai conteggi pratici.
I compilatori latini speravano di mascherare, con un grande sfoggio di erudizione, la loro mancanza di competenza: specialistica. ... Essi conoscevano benissimo la fama dei più eminenti scienziati greci, e fingevano di servirsi delle loro opere quali fonti di informazione; ma nella stragrande maggioranza dei casi la fonte immediata di una nuova compilazione latina, durante l'età repubblicana, era un manuale greco. I compilatori romani, per consuetudine, citavano come loro fonti i nomi degli autori che in realtà erano le fonti dichiarate dai compilatori greci. In questo modo, essi ottenevano un duplice risultato: assicuravano alle loro compilazioni un'autorità maggiore e mascheravano gli abbondanti saccheggi di materiale già assimilato. Molti studiosi, in passato, si sono lasciati trarre in inganno dalle citazioni tratte da opere di Eudosso, Eratostene, Archimede, Ipparco e Tolomeo. Questi riferimenti vanno respinti recisamente, non meno delle numerosissime citazioni che vengono presentate come tratte dalle opere di Pitagora, il quale non mise mai nulla per iscritto. Una parte degli Elementi di Euclide venne tradotta in latino da Boezio all'inizio del sesto secolo, questo è vero; e gli scolari romani, durante il periodo classico, studiavano compendi o estratti dell'opera di Euclide: ma sarebbe stato un avvenimento davvero straordinario se un Romano avesse compiuto un tentativo serio di comprendere le opere teoriche di Archimede, di Ipparco e di Tolomeo; e non esistono indicazioni decisive che un tentativo del genere abbia mai avuto successo.
Quindi da un lato la mentalità pragmatica dei romani, dall'altra l'emergere di potenti spinte irrazionali, mescolate a valutazioni squalificanti per la matematica e ad una generale non conoscenza del greco che apriva voragini tra le conoscenze esistenti ed il pubblico possibile. Quest'ultima cosa si aggraverà con gli anni fino a che nessuno più conoscerà a Roma il greco e nessuno più sarà in grado, per la graduale sparizione degli schiavi, di leggere alcunché in quella lingua.
Per capire meglio occorre integrare quanto detto descrivendo lo scenario socio economico del periodo successivo, fornendo dei riferimenti e facendo alcune considerazioni.
(Continua)
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