Napoli è stata definita sul finir del Seicento la nuova Ossiringo, l’ antica città egizia celebre per la presenza di ben diecimila monaci e ventimila monache ed infatti all’ epoca la città contava ben centoquattro conventi maschili e all’ incirca una quarantina di monasteri femminili, mentre le chiese enumerate dal Celano nel 1692 erano cinquecentoquattro, al punto che poteva ben dirsi ogni contrada, ogni angolo o è chiesa o è di chiesa.
Le mura dei monasteri vengono costruite sempre molto alte, perché ciò che succede all’interno a volte è preferibile che non esca fuori, come nel caso delle monache di S. Arcangelo a Baiano, che si racconta si abbandonassero spesso e volentieri a pratiche orgiastiche. E di queste poco commendevoli abitudini si vociferava da tempo in città, se una loro badessa compariva degnamente nella novella boccaccesca di Masetto da Lamporecchio.
Il padre spirituale del convento, S. Andrea Avellino, fu costretto ad intervenire con decisione, trasferendo le religiose, tutte di nobile famiglia, in un altro monastero quello di San Gregorio Armeno e consigliò al cardinale Paolo Burali d’Arezzo la riduzione del luogo sacro allo stato laicale, perché si accorse che agivano forze misteriose, preesistenti alla costruzione della struttura, dove in passato sorgeva un tempio pagano, la cui localizzazione veniva delegata a sacerdoti rabdomanti, in grado di percepire energie sconosciute, la cui presenza facilitava lo svolgersi dei riti misterici.
La vicenda delle monache di facili costumi è stata immortalata anche dal pennello di Tommaso de Vivo, il quale, travisando la punizione per le suore, che fu un semplice trasferimento, immaginò una condanna esemplare ed in un grande quadro, conservato nella pinacoteca del principe di Fondi, immortalò un eccidio con monache, avvelenate, trafitte a fil di spada o precipitate giù dalle finestre.
Un’altra vicenda scandalosa ci viene rivelata da un processo del 1599 in cui viene condannato un parroco di Pollena Trocchia per aver abusato di alcune penitenti vergini, adescate attraverso il sacramento della confessione, una abitudine che pare fosse molto diffusa a quei tempi.
Singolare invece la pratica di un religioso teatino, il quale aveva ideato un particolare esorcismo, che diveniva efficace solo se applicato sui genitali femminili, una preferenza anatomica che diverrà un vero e proprio culto nella Confraternità della carità carnale ideata alcuni anni dopo da suor Giulia.
Una vicenda ancora più inverosimile delle monache di S. Arcangelo a Baiano e poco conosciuta anche dagli storici riguarda infatti una suora ex francescana, Giulia de Marco, protagonista nel 1611 di una torbida storia di sesso e religione, di recente scoperta compulsando antichi documenti processuali.
Infatti della poco edificante storia si occupò la stessa Inquisizione in uno dei rari interventi negli avvenimenti cittadini.
Della donna non sappiamo molto: ceduta ad una coppia senza figli rimarrà presto sola per la morte dei genitori adottivi, venne affidata ad una parente che la condusse a Napoli nella sua casa, dove fu deflorata da un servo e dalla tresca nacque un bimbo che finì nella ruota dell’Annunziata.
La donna comincia ad avere visioni mistiche e subito viene ritenuta in odore di santità non solo presso il popolino, ma anche presso la migliore nobiltà napoletana.
Ella fondò una congregazione con un popolano, Aniello Arcieri ed un avvocato, tale Giuseppe De Vicaris.
Si venne a costituire una sorta di setta, detta della carità carnale, la quale preconizzava la possibilità di accedere alle porte del paradiso, rendendo omaggio alle parti intime della suora, attraverso baci ed altre forme materiali di venerazione.
Di questa consorteria facevano parte personaggi insospettabili, tra cui lo stesso viceré conte di Lemos con la moglie, decine di membri della nobiltà sia spagnola che napoletana e numerosi cardinali ed arcivescovi.
L’atto sessuale non solo non veniva considerato un peccato, bensì un’opera meritoria nei riguardi di Dio. Cadevano così gli obblighi di castità e le preghiere venivano sostituite da accessi più o meno penetrativi alle parti intime della santona.
La Madre riceveva i fedeli nelle stanze di Palazzo Suarez, dove esistevano due differenti percorsi iniziatici: uno dedicato agli uomini più attempati o sposati che potevano solamente pregare, mentre i più giovani e prestanti avevano accesso alla contemplazione più o meno platonica delle parti intime di suor Giulia.
Lo straordinario successo di pubblico insospettisce l’inquisitore locale, messo in allarme da suor Orsola Benincasa, gelosa dell’aura di santità della collega rivale.
Si mette in moto l’ordine dei Teatini, nonostante la protezione che godeva la donna e Giulia viene accusata di avere legami con il diavolo, un capo di imputazione consueto sin dai tempi della caccia alle streghe.
I giudici del Sant’Ufficio per evitare tumulti decidono di trasferire di notte il terzetto a Roma, dove il 12 luglio 1615, essi faranno pubblica abiura, salvandosi così dal rogo e venendo condannati a finire i loro giorni nelle tetre prigioni di Castel Sant’Angelo.
La storia di suor Giulia e della sua confraternita, restituita alla sua oggettività storica, dal reperimento dei documenti, anche se solo dell’accusa, rimane uno dei capitoli più nebulosi ed accattivanti della Napoli seicentesca e diventa difficile capirne la matrice, se si trattasse cioè di semplici pratiche sataniche, di un revival di riti sessuali a sfondo misterico, da sempre diffusi in area partenopea o di una struttura di potere che adoperava un paravento confessionale per cementare la sua forza, senza trascurare le tentazioni e le gioie del sesso.
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