Diciassette anni fa, la sera del 15 settembre 1993, veniva ucciso don Pino Puglisi, parroco a Brancaccio, a Palermo. È stato ricordato dalla diocesi con una fiaccolata notturna, lo scorso 14 settembre, partita da quella che era la sua parrocchia, San Gaetano, fino a piazza Anita Garibaldi, dove abitava e dove è stato ucciso; e con una messa solenne, nel pomeriggio del 15, nella cattedrale di Palermo, presieduta dall’ex arcivescovo, il card. Salvatore De Giorgi.
Oltre alle dovute celebrazioni locali c’è però ben poco. In particolare il processo di canonizzazione – per il quale è stato appena nominato un nuovo postulatore, mons. Vincenzo Bertolone, vescovo di Cassano allo Ionio (Cs) – è fermo al palo: ha superato la fase diocesana ma è bloccato a Roma. Attorno ad un nodo: il riconoscimento del martirio del prete, che peraltro consentirebbe di non attendere i due miracoli necessari alla canonizzazione e quindi di accelerare i tempi dell’iter. Ci sono forti resistenze vaticane all’attribuzione del titolo di martire ad un prete ucciso dalla mafia, perché questo avrebbe ripercussioni teologiche e pastorali non di poco conto (v. notizia successiva).
Convertito dai poveri e dai perseguitati
Nato il 15 settembre 1937 proprio a Brancaccio da una famiglia di modeste condizioni, Puglisi segue il percorso tradizionale di un giovane che vuole diventare prete: le scuole, i gruppi ecclesiali, il seminario, fino all’ordinazione sacerdotale nel 1960. Quindi i primi incarichi in parrocchia, prima a Palermo e poi, dal 1970, a Godrano, piccolo paese di montagna a 40 chilometri dal capoluogo (dilaniato da una cruenta faida familiare risalente all’inizio del secolo), dove don Puglisi predica la riconciliazione e il perdono, puntando soprattutto sulle donne e sui bambini. Poi nel 1978 il ritorno a Palermo, dove sembra avviato ad una brillante carriera eccelesiastica: direttore del Centro diocesano vocazioni e, a Roma, consigliere del Centro nazionale vocazioni della Cei.
Nel 1990 la svolta della vita: il card. Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, lo nomina parroco a Brancaccio, e Brancaccio, in un certo senso, lo convertirà. Perché don Puglisi è un prete tranquillo, attestato su posizioni moderate, inviato a Brancaccio anche per normalizzare una parrocchia considerata di sinistra, che però si tuffa in una realtà sociale di povertà, degrado e sottomissione al dominio mafioso, e sceglie di lottare tutti i giorni per modificarla, fino a finire ammazzato. Quartiere “ad alta densità mafiosa”, come recitano le formule sociologiche, protagonista della guerra di mafia dei primi anni ’80, dominio incontrastato dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. “È una terra di nessuno, i bambini vivono in strada e dalla strada imparano solo le lezioni della delinquenza: scippi, furti…”, dirà lo stesso Puglisi – che accetta subito l’incarico, perché è un prete obbediente e perché per lui si tratta di un ritorno a casa – durante un convegno della Chiesa palermitana. C’è povertà materiale e culturale: “L’evasione scolastica – dirà ancora – è dovuta al fatto che Brancaccio è l’unico quartiere di Palermo in cui non esiste una scuola media. Evidentemenete questo fa comodo a chi vuole che l’ignoranza continui. Come strutture civili abbiamo solo la delegazione di quartiere. In sostanza si fa prima a dire quello che c’è: tutto il resto manca”.
E siccome manca tutto, don Puglisi comincia dai bambini: gira per il quartiere, li trova in mezzo alla strada, facile preda della criminalità, e li porta in parrocchia, non per catechizzarli ma per farli giocare, educandoli però al rispetto delle regole. Poi gli adulti e il resto del quartiere. Inizia la collaborazione con il Comitato intercondominiale di via Hazon, dove ci sono alcuni palazzoni costruiti da una ditta mafiosa fallita in cui il Comune ha stipato centinaia di sfrattati di tutta la città. Insieme al Comitato, don Puglisi porta avanti la battaglia per la costruzione delle fogne, per la creazione di un presidio socio-sanitario, per la costruzione della scuola media. E contemporaneamente rompe i legami fra la parrocchia e i mafiosi: vieta al Comitato per la festa di San Gaetano di passare per la case a riscuotere i soldi – quasi un pizzo – e ridimensiona la festa del patrono, diventata una vetrina per gli uomini d’onore che portando la statua o guidando la processione legittimano simbolicamente il loro ruolo, con la benedizione della Chiesa; respinge le offerte o gli aiuti che boss e politici democristiani gli porgono per suggellare i loro legami; modifica i percorsi delle processioni per non farle più passare, quasi in adorazione, sotto le case dei capi mafia; respinge i mafiosi che vogliono fare i padrini di battesimo e di cresima.
Arrivano tre suore e un viceparroco per dargli una mano – Gregorio Porcaro, che poco dopo l’uccisione di Puglisi lascerà il ministero – e nasce il Centro Padre Nostro: spazio socio-culturale per i bambini e i giovani, centro di assistenza per i più poveri, ma anche luogo dove si impara a conoscere e a rivendicare i propri diritti, spezzando i meccanismi di sottomissione e di clientelismo che da sempre regolano la vita a Brancaccio. E si moltiplicano gli scontri con i notabili democristiani locali: Puglisi rispedisce al mittente i “santini” che vengono portati in parrocchia ad ogni tornata elettorale, attacca gli amministratori locali quando si affacciano nel quartiere a raccattare voti, in un’assemblea pubblica invita a gran voce i cittadini di Brancaccio a “non chiedere come favore ciò che è vostro diritto ottenere”.
Puglisi ha passato il segno ed inizia ad essere osservato più da vicino dai Graviano, che Leoluca Bagarella rimprovera per aver lasciato troppo spazio al prete. Nel 1993 la situazione precipita. Il 9 maggio Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi di Agrigento, rompe un lungo silenzio e tuona contro i mafiosi. “Era ora”, esclama Puglisi, che più volte si è lamentato delle omissioni di molti suoi confratelli. Il 21 maggio la parrocchia organizza una fiaccolata per ricordare la strage di Capaci e il giorno dopo, puntuale, arriva la prima forte intimidazione: viene incendiato il camion della ditta che stava effettuando dei lavori di ristrutturazione in parrocchia.
A giugno Puglisi e il Comitato intercondominiale portano una troupe del Tg3 a filmare il degrado di via Hazon e pochi giorni dopo vengono incendiate le porte delle abitazioni dei tre leader del Comitato. La domenica successiva, dal pulpito, durante l’omelia Puglisi attacca frontalmente i mafiosi: “Non siete uomini, ma animali”. A luglio nuova manifestazione antimafia, in piazza, per ricordare la strage di via D’Amelio, e la sera stessa un giovane animatore del-la parrocchia viene aggreddito e brutalmente picchiato. Anche il cardinale scarica il prete che inizia a sentirsi solo e a temere per sé e per i suoi collaboratori, a cui chiede una maggiore prudenza. Ma il prossimo obiettivo ormai è lui, don Puglisi, che viene ucciso nel giorno del suo compleanno, con un colpo di pistola alla nuca, mentre rientrava in casa.
INTERVISTA AL TEOLOGO CAVADI
di Luca Kocci, da Adista 71/2010
Don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia per il suo impegno pastorale e sociale, è un martire oppure no? Il Vaticano, dove è fermo il processo di canonizzazione che ha superato la fase diocesana, è restio a concedere il titolo. Troppo pericoloso, forse, affermare che chi si oppone alla mafia fino alla morte è un martire: che figura farebbe tutta quella parte di Chiesa che non solo non si oppone ma convive tranquillamente con mafia, camorra e ‘ndrangheta? Diverse associazioni ecclesiali di base palermitane, invece, pensano esattamente il contrario, ed hanno scritto a Benedetto XVI – che il prossimo 3 ottobre andrà a Palermo per incontrare famiglie e giovani, v. notizia successiva – chiedendogli che “venga solennemente riconosciuta dalla Chiesa, come martirio cristiano, la morte di don Puglisi, ucciso dalla mafia”: dare questo valore alla morte di un uomo “che non ha piegato la testa al potere mafioso” in nome del Vangelo sarebbe un segno di “svolta” (v. Adista n. 61/10).
Per approfondire la questione Adista ha intervistato Augusto Cavadi, filosofo e teologo palermitano, esperto dei rapporti fra Chiesa e mafia e autore, fra l’altro, del Dio dei mafiosi (Edizioni San Paolo, 2009), un volume che analizza in particolare le relazioni fra etica mafiosa e teologia cattolica.
Un antico adagio teologico sostiene che ogni Chiesa ha i martiri che si merita. Nel caso di don Pino Puglisi concordo, ma a patto che si capovolga il senso abituale della frase. Essa, infatti, suona tradizionalmente in tono trionfalistico: più una comunità è santa, più martiri produce. A Palermo, come a Casal di Principe con don Peppino Diana (il parroco ucciso dalla Camorra il 19 marzo 1994, ndr), va intesa invece su un registro molto meno entusiasmante: più una Chiesa è qualunquista, più è probabile che – se qualcuno s’impegna – finisca ammazzato. Non sarebbe strano, d’altronde, se così non fosse? È una legge che vale, spietatamente, per ogni gruppo professionale. Se i giudici di un distretto prediligono per anni il quieto vivere, la loro tiepidezza investigativa crea le condizioni oggettive per cui il primo collega che si mette a fare sul serio si espone ai colpi della mafia; se i commercianti di un rione pagano il pizzo, la loro sudditanza condanna a morte il primo collega che si ribella; e così, altrettanto, per i medici, i giornalisti o i poliziotti.
Certamente. La figura tipica del prete meridionale è di un onesto burocrate del sacro: amministra i sacramenti, insegna un po’ di catechismo ai bambini, soccorre qualche famiglia in difficoltà. Per il resto, meno interrogativi si pone, e pone ai parrocchiani, e più viene apprezzato. In questo scenario, i mafiosi possono accettare che un prete organizzi marce e fiaccolate in difesa della legalità democratica, come faceva don Puglisi? Che chieda alle autorità di far sgombrare locali abusivamente adibiti a deposito di sigarette di contrabbando e di droghe illegali? Che critichi gli amministratori esperti in pratiche clientelari quanto incapaci di attivare spazi sociali istituzionali (come scuole, palestre, centri sociali, biblioteche)? Che addirittura vada a visitare familiari di mafiosi per problematizzare la compatibilità di certi criteri etici con i dettami evangelici? Evidentemente no! Un prete può andare bene solo nella misura in cui non insiste sul messaggio di Gesù di Nazareth: la dignità di ogni uomo e di ogni donna, la cura del debole, la difesa del perseguitato. Può essere lasciato in pace se, a sua volta, lascia in pace padroni e padrini: se – come diceva a proposito di sé monsignor Helder Camara – aiuta i poveri ma evita di chiedersi perché questo sistema socio-economico produca poveri.
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