Il conclave per la successione avrebbe dovuto tenersi tra le Mura leonine, dentro il Regno d' Italia. La prima votazione riguardò l'opportunità di tenere o no il conclave in queste condizioni. Prevalse il no, anche se il capo del governo italiano, Francesco Crispi, aveva assicurato l' assoluta neutralità dell' Italia. Restava la speranza che qualche Paese cattolico si facesse avanti per ospitare l' evento. Poiché nessuno si fece avanti, si rifece la votazione e vinse la proposta di fare il conclave in Vaticano (anche perché qualcuno aveva detto che allontanarsi sarebbe stato pericoloso, al ritorno magari un corpo di bersaglieri avrebbe potuto alloggiare negli appartamenti papali).
Senza più le indegne pressioni dei vari Paesi europei, che ritenevano ormai il Vaticano ridimensionato, fu subito eletto il cardinale Gioacchino Pecci, considerato all'opposizione durante il disastroso pontificato di Pio IX,che assunse il nome di Papa Leone XIII (1878-1903). In realtà, almeno nei primi 10 anni, Leone proseguì la politica di Pio IX particolarmente in quell'infame non expedit (non conviene) che significava la non partecipazione dei cattolici, pena la scomunica, né come elettorato passivo né attivo.
Il fine era quello di far vedere al mondo le sofferenze della Chiesa sotto il dominio di uno Stato anticlericale. Oltre all'accettazione di ogni atto di Pio IX, Leone XIII ci mise molto del suo andando ad uno scontro totale con il Regno d'Italia attraverso l'enciclica Imperscrutabili (1878) con la quale dichiarava di non rinunciare al potere temporale. Scrisse anche all'Imperatore Francesco Giuseppe d'Austria Ungheria per denunciare la sua situazione di prigioniero e la sua volontà d'andarsene dall'Italia. Come al solito di politica internazionale i Papi capiscono poco e solo un anno dopo l'Austria si alleò con l'Italia nella Triplice Alleanza con la conseguenza che la Chiesa restò ancora più isolata. Altre operazioni sballate le fece con la Germania perché in cambio di alcune concessioni a Bismarck riuscì a scontentare il Partito Cattolico (Zentrumspartei). Analogamente in Francia dove i cattolici ebbero ordine di collaborare con la Terza Repubblica anche se questa era apertamente anticlericale ed avviava quelle riforme che porteranno alla separazione tra Stato e Chiesa del 1905 (due anni dopo la morte di Leone).
Nel 1885 vide la luce l'enciclica Immortale Dei nella quale, con l'ipocrisia e la menzogna tipica di ogni Papa, Leone XIII dichiarava che la Chiesa era indifferente ad ogni forma di governo, purché lavorasse per il benessere dei cittadini ed i governanti avessero riguardo a Dio, padrone supremo del mondo. Più oltre si diceva che i cattolici devono partecipare alla vita politica meno che in qualche luogo come l'Italia (anche se questa negazione contrastava clamorosamente con l'affermazione precedente).
Altra enciclica di rilievo fu la Aeterni Patris del 1879 perché in essa Leone trattò il problema dei rapporti della fede con la scienza. Si inizia il rosario di sciocchezze nel quale era già entrato Pio IX che porteranno fino a Giovanni Paolo II. La Chiesa è sempre stata attenta alle scienze dell'uomo ed in particolare alla filosofia. Quest'ultima apre alla fede della quale la ragione è ancella perché tenta di districarne i misteri. La ragione ha un suo valore solo se è aiutata dalla Rivelazione e dalla fede. Tutto ciò lo si ritrova solo nella Scolastica e nel suo grande maestro, Tommaso d'Aquino. Tutto ciò alla fine dell'Ottocento quando la scienza aveva fatto cose incredibili sulle quali non si dice nulla. Il riferimento è evidentemente al Positivismo, cioè ad una certa filosofia. Non si entra mai in argomenti in cui né la Chiesa né Tommaso possono e potranno mai dire una sola parola. Con la Fides et Ratio di Giovanni Paolo II, sulla quale tornerò a suo tempo, saremo ancora allo stesso punto e che vi siano dei preti un poco tocchi che continuano a dire sciocchezze non c'è da stupirsi ma che vi sia tanta gente che li segue è veramente preoccupante sullo stato di salute della razza umana.
Ma veniamo all'enciclica più famosa di Leone XIII, la Rerum Novarum del 1891 nella quale è enunciata la cosiddetta Dottrina Sociale della Chiesa. In somma sintesi le condizioni bestiali di vita operaia, soprattutto quelle di fine Ottocento con le 16 ore di lavoro e con i bambini anche di 9 anni utilizzati nelle fabbriche (in quelle tessili erano insostituibili per le loro piccole dita in grado di entrare nei macchinari per sbrogliare i fili), non si possono risolvere senza ricorrere alla religione ed alla Chiesa. La proprietà privata è intoccabile perché è un sostegno alla libertà della persona e della famiglia (anche perché un comandamento vieta di desiderare la roba d'altri - sic !) e le differenze di classe sono volute da Dio (Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato). L'operaio, che ha diritto di associarsi in sindacati, deve servire fedelmente il padrone ed il padrone deve essere giusto con l'operaio che rivendica giustamente migliori condizioni di vita. Se tali condizioni non vi sono ed il salario non è sufficiente a sopravvivere è lo Stato che deve intervenire con il sostegno pietoso ai bisognosi. In questa visione padronale, liberista e demenziale che schierava la Chiesa con il capitalismo, vi è un attacco violento al socialismo per quella lotta di classe che non può essere considerata cristiana come lo sciopero al quale non si deve ricorrere (Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d'ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male con l'autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni). Ma su questo tema interverranno anche Pio XI con la Quadragesimo Anno (1931), Giovanni XXIII con la Mater e Magistra (1961), Giovanni Paolo II con la Centesimus Annus (1991). E la Chiesa, se la cosa non fosse stata altrimenti chiara, sceglieva con chiarezza da che parte stare. Lo vedremo meglio con le adesioni a Fascismo, Nazismo, con i sostegni a Pinochet e a Videla. Insomma la Chiesa sceglieva ogni dittatura criminale del mondo.
Intanto, nel 1878, in Italia si era avuta la successione al trono del Regno d'Italia di Umberto I a Vittorio Emanuele II. Il nuovo Re mostrò subito la sua natura autoritaria rispondendo sempre con l'esercito alle proteste di piazza. Subì un attentato a Napoli nei primi giorni di Regno. L'anarchico Passannante tentò di ucciderlo ma il Primo Ministro Cairoli lo difese risultando ferito. La pena prevista sarebbe stata la morte ma il Re fu un perfido boia che tramutò la pena in carcere a vita in una cella alta 1,4 metri senza servizi igienici e con 18 chili di catene ai piedi. Passannante morì pazzo. Questo virgulto dell'indegna Casa Savoia di fronte alle proteste per l'introduzione della tassa sul macinato che in realtà era l'ultima goccia di soprusi e violenze degli ultimi anni (nonostante la Rerum Novarum) il 7 maggio 1898 fece sparare con i cannoni sulla folla (che non era socialista) a Milano dal generale Bava-Beccaris. Fu una vera strage con oltre cento morti e cinquecento feriti (dati polizieschi). Umberto I decorò il generale criminale con la Gran Croce dell'Ordine Militare di Savoia. Il 29 luglio del 1900 questo criminale verrà ammazzato dall'anarchico Gaetano Bresci che, arrestato, morirà impiccandosi (?) in cella un anno dopo. A Umberto I succederà quello strano attrezzo chiamato Vittorio Emanuele III.
In definitiva, ancora proprio sul finire del secolo, questo Papa veniva meno ad ogni promessa senza essere capace di accettare la condizione in cui si trovava ormai la Chiesa. Le sue prese di posizione aumentarono il risentimento della popolazione che riacquistò lo spirito antipapale iniziato in modo clamoroso con Pio IX. In questo senso fu significativo un episodio accaduto a Roma il 9 giugno 1889.
Nel 1885 si era formato un comitato per la costruzione di un monumento a Giordano Bruno, cui aderirono le maggiori personalità dell'epoca: Victor Hugo, Michail Bakunin, George Ibsen, Giovanni Bovio, Herbert Spencer e molti altri. Nel 1888 gli studenti universitari romani (tra cui Pietro Cossa), tra i maggiori animatori del comitato, fecero numerose manifestazioni per erigere il monumento, spesso con scontri, arresti e feriti. Un tal monumento era già stato eretto a Roma nel 1849, in epoca di Repubblica Romana, ma Pio IX lo fece distruggere, appena fu restaurato il suo potere.
Il 9 giugno 1889 veniva inaugurato in piazza Campo de' Fiori in Roma il monumento, opera di Ettore Ferrari, nello stesso luogo dove Bruno fu abbrugiato vivo. In tutta Italia risuonarono gli slogan Morte a Leone XIII, Morte allo Spirito Santo ed il Papa veniva impiccato in effige. Era in carica il governo Crispi. Sullo sfondo vi era quanto accaduto un anno prima quando il sindaco clericale di Roma, Leopoldo Torlonia, proveniente dalla nobiltà nera vaticana fu destituito con decreto reale ufficialmente per aver fatto visita a Papa Leone XIII (ad una Chiesa ancora non "riconciliata"). Furono indette nuove elezioni per il giugno 1888. Vinsero i liberali contro i clericali, grazie al loro riconciliarsi contro gli attacchi che la Chiesa muoveva all'iniziativa del monumento.
- Nel 1896 era stato monsignor Balan, un prete che addirittura vedeva in Leone XIII un Papa che sopportava troppo, ad aprire la campagna contro Bruno. Scrisse che: "la propaganda bruniana è opera di stranieri, ebrei, ateisti, massoni".
- Tale vergogna venne ripresa da La Civiltà Cattolica, periodico dei gesuiti (periodico che dal 1850 al 1945 si distinguerà per il suo antisemitismo). Scriveva tale fogliaccio: "dal giorno in cui s'è posta mano al suo monumento, i disastri d'ogni maniera, come inondazioni, frane, uragani e simili, hanno portato la desolazione nelle campagne di parecchie province" .... "è la presa di possesso dell'ateismo di quella Roma che da 14 secoli è stata ed è la capitale del mondo cristiano".
- Il giorno dell'inaugurazione fu definito "di raccoglimento e di lutto" dall'Osservatore Romano. Il Papa passò il giorno digiuno e prostrato davanti alla statua di San Pietro; ad evitare che le persone presenti fossero in minor numero possibile, tutta l'aristocrazia nera abbandonò Roma per 3 giorni. - La Civiltà Cattolica sostenne che era "il trionfo dei rabbi della Sinagoga, degli archimandriti della Massoneria e dei capiparte del liberalismo demagogico".
In tutto questo vi erano anche dei cattolici che volevano lavorare per conciliare ma erano schiacciati dall'intransigenza papale. Nonostante ciò si formarono delle leghe di cattolici che lavorarono per la pacificazione. E pian piano anche Leone inizia a muoversi su questa strada. Le iniziative culturali tese alla pacificazione sono raccontate da Rendina:
Nel 1892 il primo segno viene da Genova con un congresso nazionale di studiosi cattolici di questioni sociali; Giuseppe Toniolo fonda la «Rivista internazionale di scienze sociali» e il fine è quello di «rifare con rigore scientifico e con spirito cattolico ciò che hanno fatto Marx, Engels e Loria». Nasce la F.U.C.I. [Federazione Universitari Cattolici Italiani, ndr] e si costituisce l'Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici; nel 1898 Romolo Murri fonda a Roma un'altra rivista, «Cultura sociale», nella quale la missione cattolica di elevare le classi più umili si fa programma politico. Quanto concretamente esso potrà attuarsi lo dirà la storia del secolo che sta per nascere; è possibile che il pensiero sociale dei cattolici di questi anni abbia «un puro valore accademico», come ha osservato Antonio Gramsci, «elemento ideologico oppiaceo, tendente a mantenere determinati stati d'animo di aspettazione passiva di tipo religioso, ma non come elemento di vita politica e storica direttamente attivo». Ma è un fatto che il Partito popolare, ovvero la Democrazia cristiana o comunque essa si chiamerà, è già in embrione nei programmi di Murri: nel 1899 i giovani «democratici cristiani» stendono a Torino l'assetto politico di tutto il movimento [Murri verrà scomunicato, ndr].
In questo clima di ritrovato entusiasmo cattolico intorno alla figura del papa, Leone XIII può nuovamente indire il giubileo nel 1900, non più celebrato ormai da 75 anni, a parte quello a «porte chiuse» di Pio IX; un poeta socialista come Giovanni Pascoli esalta nei suoi Odi e Inni «La porta santa». Ma nella celebrazione inconsueta di un laico affiora il dubbio sull'effettiva funzione che il papa e la Chiesa possano ancora avere nel nuovo secolo [...]
Comunque su Leone XIII ci si può contare poco perché se da un lato nasceva il movimento democratico cristiano, dall'altro egli gli impediva di agire con l'enciclica Gravis de communi re del 1901. Con questa presa di posizione Leone si allontanerà sempre più dagli intellettuali cattolici che per un momento avevano creduto in lui.
Prima però di chiudere con le vicende del personaggio è utile discutere di un aspetto che in genere non viene trattato, quello delle finanze vaticane in un periodo di fine del potere temporale. Dapprima iniziano a crescere gli investimenti in azioni straniere e, cosa sorprendente, si ritrova il Vaticano ad investire grandi capitali su titoli degli Stati Uniti, un Paese con una Costituzione simile a quella francese. Ancora più sorprendente è l'investimento in titoli dell'Impero ottomano. Ma ormai entriamo nella pecunia non olet e tutto potrà accadere con la Chiesa nei mercati azionari e criminali mondiali, tutto fino a Marcinkus ed oltre. Ma iniziamo qui. E' con Leone XIII che iniziano speculazioni finanziarie vaticane che porteranno a grandi scandali. Si costituisce una sorta di banca del Vaticano che opera in assoluto segreto, pena la scomunica. Il primo che si occupò di tali finanze fu il monsignore Enrico Folchi.
La conversione iniziale delle finanze vaticane dagli interessi immobiliari a quelli finanziari nacque dalla perdita del potere temporale. Anche la Rivoluzione Industriale aiutava ad investimenti in borsa, investimenti con rendite più immediate di quanto non ne dessero gli investimenti immobiliari. Insomma la Chiesa si modellava all'organizzazione capitalistica lottando contro i liberali ma non contro il liberismo economico.
In poco tempo gli interessi soprattutto piemontesi provocarono la trasformazione socioeconomica di Roma. La città era diventata la capitale e doveva ospitare edifici ed abitazioni per una pletora di istituzioni e di impiegati. Con questa prospettiva ritornavano di enorme interesse gli investimenti immobiliari e la richiesta e concessione di mutui. A questo proposito scrive Lai:
Per secoli, fino all'arrivo dei «piemontesi», gli abitanti di Roma erano stati sudditi sostanzialmente tranquilli e fedeli di un regime che assicurava loro una esistenza semplice anche se grama, assolutamente priva delle lotte politiche delle altre grandi città. Nel decennio successivo alla conquista di Roma tutte le categorie sociali erano state costrette a rivedere forme di vita un tempo giudicate immutabili, dalla neghittosa e altera nobiltà, alla gracile borghesia, al misero popolino. Classi per certi versi cristallizzate nelle loro funzioni che d'improvviso s'erano trovate alle prese con gente di modi e di mentalità diversi, con usi, abitudini e linguaggio differenti, completamente protesa alla conquista dei posti di comando e alla ricerca di far quattrini in qualsiasi maniera. Sollecitata dalla competizione con i nuovi arrivati, anche l'aristocrazia romana aveva archiviato il tradizionale disprezzo per le questioni economiche.
Prima del 1870, i membri delle famiglie nobili raramente si occupavano del patrimonio immobiliare, lasciato nelle mani di agenti che provvedevano a ogni cosa: affittavano i terreni a pascolo, si occupavano della vendita dei prodotti degli orti e delle vigne, dirigevano la vita dei palazzi. Un patrizio non metteva mai piede nelle stanze adibite alla «computisteria», dove regnava l'amministratore, così come le dame in cucina. Più volte i pontefici, informati delle rovinose condizioni finanziarie di antiche casate, erano stati costretti a intervenire, nominando «cardinali economi»: porporati cui spettava imporre rigide misure per restaurare dissestate fortune. Con l'arrivo dei piemontesi le famiglie nobiliari, gravate dalle tasse e con redditi agricoli ridotti a causa della concorrenza delle altre regioni italiane, avevano dovuto rinunciare al vecchio modo di vivere per contendere il passo ai nuovi venuti e conservare il prestigio un tempo accordato al loro rango dalla Chiesa. Obiettivo approvato dal papa, il quale sovente stimolava gli uomini rimastigli fedeli - a volte chiamati «vaticanisti» come gli impiegati della Curia - a dare un fattivo apporto alla riconquista cattolica della società.
Leone XIII contava infatti sul sostegno dei nobili nella contesa con l'Italia, aggravata dall' astensione dei cattolici nelle elezioni politiche e da nuovi episodi, come l'incameramento da parte dello Stato delle proprietà immobiliari del dicastero vaticano Propaganda Fide, che dette luogo a una lunga vertenza giudiziaria con echi internazionali. Spettava loro, quali appartenenti al ceto elevato, testimoniare con l'attività imprenditoriale l'aiuto che la Chiesa poteva dare contro il pericolo socialista, praticando quella soluzione della «questione sociale» che era fondata sulla funzione mediatrice tra le classi: le superiori con il compito di educare e di dirigere, le inferiori meritandosi, con la docilità, il lavoro e il pane. Un disegno che giustificava sia la benevolenza accordata da papa Pecci al Banco di Roma, i cui azionisti erano membri del patriziato o alle dirette dipendenze del Vaticano, che il finanziamento concesso alla Banca Artistica Operaia, filiazione dell'omonima associazione costituita dai medesimi personaggi con il compito di «promuovere, sovvenire, utilizzare il credito degli artisti e dei piccoli industriali e commercianti».
Il Banco di Roma era stato fondato nel 1880 da nobili romani che avevano intenzione proprio di sfruttare lo sviluppo urbanistico ed economico di Roma divenuta capitale. Come detto da Lai, il banco aveva la protezione e simpatia del Papa che si appoggiava a tale istituto per i mutui e le attività di speculazione economico-finanziaria. Prosegue Lai:
Le azioni e le obbligazioni depositate a garanzia dei mutui e la loro gestione avevano costretto Folchi a seguire il mercato mobiliare. Oltre alla giornaliera lettura delle quotazioni della Borsa di Roma egli si avvaleva dei suggerimenti dell'agente di cambio Augusto Pericoli e dell'avvocato Pietro Carini, i quali agivano pure per conto di monsignor Nazareno Marzolini, il «perugino» addetto alle «finanze private» del pontefice. Per questo motivo aveva notato che l'attività dei gruppi finanziari, fino ad allora concentrata sui prestiti pubblici e sugli investimenti ferroviari, cominciava a privilegiare altre attività, in primo luogo gli intensificati lavori edilizi; e s'era accodato alla tendenza. La validità dell'indirizzo, approvato da accorti banchieri come Cerasi, era comprovata dagli utili. «I guadagni erano facili, senza nessun azzardo - annotava Folchi - si guadagnava, dirò così, non volendo.»
Il monsignore si riferiva ai ragguardevoli profitti connessi all' espansione urbanistica, avviata sotto il governo papale degli anni Sessanta e sviluppata dalla massiccia immigrazione, nonché dall'impulso della autorità italiane ad ammodernare la capitale, la nascente «Terza Roma». Dapprima l'urbanizzazione ebbe inizio sfruttando gli spazi edificabili all'interno delle mura, dando vita a un nuovo rione, l'Esquilino, poi continuò con l'incorporazione parziale e quindi totale dell' ampia distesa suburbana, dove si estendevano campi, paludi e qualche casolare, zona chiamata i Prati di Castel Sant'Angelo. Operazioni nelle quali erano stati coinvolti anche membri del patriziato, sospinti dai forti ricavi a prendere parte alla speculazione edilizia a nome proprio o partecipando a combinazioni finanziarie in cui erano presenti capitali italiani e stranieri.
Iniziava il Sacco Edilizio di Roma con capitali del Nord (il Credito Immobiliare di Torino), con la terra messa a disposizione ai nobili romani, la nobiltà nera creata dai papi nei secoli, nobiltà che si era impadronita di tutte le terre intorno a Roma e che ancora oggi gestisce i peggiori affari e corruzioni edilizie e con la Chiesa dietro a tutto pronta a riscuotere ogni beneficio. I costruttori e gli investitori iniziarono con il porre l'occhio su una parte di Villa Borghese. Leggiamo da Lai:
La gelosa attenzione delle autorità cittadine per villa Borghese non si estendeva agli adiacenti, famosi giardini dei Boncompagni Ludovisi, per buona parte racchiusi nel tratto delle mura Aureliane da Porta Pinciana all'allora Porta Salara o Salaria. La villa, costruita dal cardinale Ludovico Ludovisi, nipote di papa Gregorio XV, e ingrandita dopo che Ippolita, l'ultima discendente della principesca casata, l'aveva portata in dote ai Boncompagni, era considerata fra le più belle d'Europa. Ma si trovava così a ridosso del centro barocco della città da renderla un'appetibile area edificabile.
A renderla tale, del resto, provvide lo stesso governo che, nel 1884, avviò una trattativa al fine di costruirvi le sedi della Camera e del Senato e una «aula magna» per le sedute reali. Progetto che non ebbe seguito, deludendo i Boncompagni Ludovisi, i quali, abolito l'obbligo per il primogenito di conservare intatto il patrimonio familiare, erano incerti se spartirsi giardini e fabbricati o vendere ogni cosa e dividere il ricavato. Fu a questo punto che la Generale Immobiliare (società torinese controllata da un forte organismo bancario, il Credito Immobiliare) offrì al principe Rodolfo di lottizzare a proprie spese i terreni, duecentomila metri quadri, provvedendo poi alla vendita delle aree edificabili, i cui ricavi sarebbero stati proporzionalmente divisi tra di loro. Accordi del genere, che addebitavano al Comune lavori stradali, impianti fognari, illuminazione, erano divenuti usuali tra gruppi finanziari del Nord e clericali romani pronti ad accantonare ogni pregiudizio ideologico in cambio di profitti [duecento anni dopo tutto marcia esattamente allo stesso modo, ndr].
La società torinese impegnata nei lavori di pubblica utilità, che voleva imporre la sua presenza a Roma, lusingò il principe programmando la costruzione di un quartiere residenziale ispirato al Parc Monceau di Parigi: sostituire ai «viali oscuri sagomati da secoli con le forbici, alle radure, boschetti e fontane rimboccanti di calami» palazzine e villini lungo strade prive di negozi. Alla cura architettonica avrebbe badato l'immobiliare, ponendola come condizione nel sovvenzionare gli edifici degli acquirenti dei lotti. Occorreva, però, che tutti gli eredi fossero d'accordo e che il Comune di Roma acconsentisse a una lottizzazione non compresa nel piano regolatore. Fu Ugo Boncompagni Ludovisi a negoziare con lo zio Ignazio, principe di Venosa, e con le tre zie la somma da versare loro; e fu la società immobiliare a superare gli ostacoli posti da un sindaco, il duca Leopoldo Torlonia, nipote del principe Alessandro, che, pur essendo stato eletto dalla maggioranza liberale, non poteva dimenticare né la tradizionale solidarietà del suo ceto né il peso della minoranza clericale, schierata al Campidoglio a favore dei Boncompagni Ludovisi.
Per di più il principe Rodolfo aveva associato all'impresa il principe Emilio Altieri, comandante delle guardie nobili pontificie, e il fratello del cardinale Theodoli, marchese Gerolamo. Non a caso parecchi mesi prima dell'approvazione comunale del progetto l'Immobiliare aveva messo mano alla rimozione di statue, colonne, piedistalli, vasi, decorazioni e al tracciato delle nuove strade, una delle quali - la più vicina al centro della città - avrebbe preso, nella prima porzione, il nome di Ludovisi e, nella seconda, di Boncompagni per ricordare le due famiglie.
Questo è solo un esempio, il primo e clamoroso, del modo di operare della speculazione su Roma. Si partì dalla lottizzazione del rione Monti passando poi alla riva destra del Tevere (Prati) e quindi a settentrione del Vaticano, ai Borghi, a Castel Sant'Angelo. Presto anche gli indigeni entrarono in affari costruendo infiniti palazzoni, grigi, tutti uguali. Qualche anno dopo era L'Osservatore Romano (30/31 gennaio 1894), che accortamente Leone XIII aveva acquistato come quotidiano vaticano, a riassumere con queste parole il cosiddetto Risorgimento di Roma:
«1. Vi sono tutt'ora 285 fabbricati nuovi non finiti e che non si possono condurre a termine; 2. Vi sono 40.000 ambienti fra camere ammobiliate e appartamenti vuoti, che sono affittati; 3. Vi sono 700 e più cartellini ed affissi che annunziano liquidazioni, fallimenti, vendite, cessioni, e via discorrendo; 4. Vi sono circa 500 botteghe o chiusi. E siccome nel percorrere le vie di Roma per fare questa inchiesta, ci incontravamo ad ogni piè sospinto in qualche povero che ci chiedeva 1'elemosina, così pensammo che per completare il 'risorgimento in Roma' sotto il punto di vista della prosperità materiale ed economica dei romani occorreva una statistica, almeno approssimativa degli accattoni e dei questuanti che in una guisa o nell'altra si aggirano adesso per Roma».
Questo fermo nell'edilizia romana comportò grosse perdite per le finanze vaticane. Ogni operazione di Folchi era stata sempre autorizzata verbalmente dal Papa che aveva sempre esultato per i lauti guadagni che Folchi gli aveva procurato. Ma quando iniziarono le perdite il colpevole fu trovato in Folchi che venne processato. Ma la stampa libera, anche quella d'oltralpe, capì subito quale era l'andazzo in Vaticano (e quale sarebbe stato nel futuro). Il francese l'Eclaire, dopo aver raccontato la storia ed aver sostenuto che i soldi mancanti erano prestiti sulla fiducia a famiglie nobili romane come i Boncompagni Ludovisi, i Borghese, gli Altieri, i Torlonia, i Del Drago, i Giustiniani Bandini, i Gabrielli, i Salviati, i Pecci (famiglia del Papa), i Theodoli, i Bracceschi, Ferdinado IV ex di Toscana, ... (prestiti che il Papa amorevolmente autorizzava ad accordare, ndr), parlava di Folchi come colpevole soltanto di soverchia fiducia, non di malversazione. Il quotidiano francese, più oltre, poteva però scrivere: Un papa che può perdere una cinquantina di milioni non è poi un prigioniero poco invidiabile che dorme sulla paglia. Il denaro che gli giunge da ogni parte del mondo per essere dedicato a vantaggio della religione, serve così poco ai bisogni della Chiesa che si è potuto dissiparlo in speculazioni sbagliate. E vi era anche chi, come la stampa tedesca, insinuava il buon approdo della Chiesa nella capitale d'Italia: L'impegno finanziario di Leone XIII nelle imprese romane testimonia quanto egli fosse fiducioso nella loro bontà e nel prospero avvenire della capitale del Regno d'Italia. E la questione, che il Papa tentava di addossare a Folchi, non era tanto, come sostenne il quotidiano del governo italiano la Tribuna, di chi fosse il colpevole ma che i milioni mandati dai credenti non c'erano più.
Un'ultima vicenda che merita di essere ricordata è quella relativa alla legislazione su matrimonio civile e divorzio. Crispi era un deciso anticlericale ma era un politico molto accorto. Sapeva bene che tra la borghesia liberale che sedeva in Parlamento vi erano in maggioranza coloro che erano soddisfatti dell'Unità e non volevano spingere oltre contro la Chiesa anche per la paura di trovarsi contro i contadini aizzati dai parroci che li sottraevano al socialismo. Insomma il governo Crispi fece un'enormità di leggi e di riforme ma quelle definibili anticlericali furono davvero poche. Sulla questione delle unioni matrimoniali già vi erano stati vari fallimenti di due riforme: la prima che voleva il matrimonio civile precedere quello religioso e la seconda relativa all'annoso problema del divorzio. Dopo tentativi tanto timidi quanto infruttuosi che iniziarono nel 1867, si arrivò ad un progetto di legge divorzista presentato dal Ministro della Giustizia Tommaso Villa. Il Villa, tra l'altro, presentò al Parlamento una documentata relazione in cui mostrava che nel 1880 si era avuto mediamente un processo l'anno (la metà tra Napoli e Palermo) per omicidi tra coniugi. Immediatamente scattò la reazione di una delle organizzazioni cattoliche costituite e citata, l'Opera dei Congressi. L'Italia era un Paese di analfabeti in cui vi erano all'incirca 2 milioni e mezzo di elettori. Ebbene l'Opera riuscì in poco tempo a raccogliere oltre due milioni di firme contro il paventato divorzio, firme che raccoglievano anche le volontà di alcuni liberali conservatori. Ciò descrive i livelli paurosi di arretratezza socio-culturale del Paese, arretratezza su cui la Chiesa aveva ed ha sempre buon gioco. In ogni caso del divorzio non si fece più nulla né allora né negli anni seguenti, fino al 1902, quando una nuova proposta, moderatissima che prevedeva il divorzio solo in casi di estrema gravità, fu presentata da Zanardelli. Ancora una volta vi fu la mobilitazione massiccia della Chiesa che raccolse circa 3 milioni e mezzo di firme contrarie con l'evidente conseguenza della morte di quel progetto di legge. Fu Antonio Labriola che descrisse bene in un suo articolo cosa stava avvenendo in Italia. La Chiesa stava rinunciando al potere temporale che vedeva difficilissimo riconquistare e stava cambiando sistema di potere: Con nuova tattica, si misero a rendere clericale la società, e han portato ormai le cose a tal punto, da far credere a molti ... che il cattolicesimo sia tutta una cosa sola col temperamento italiano ... . Così essi mirano a provare che, senza divenire un partito, e per sole vie indirette, possono arrestare l'azione dello Stato, quando questa tocchi ad Istituti che la Chiesa ha bisogno di padroneggiare. Labriola indicava il modo per superare questa palude che minacciava la crescita civile e sociale del Paese, quello del progresso intellettuale e morale degli italiani.
Si tenga comunque conto di questa imponente facoltà di mobilitazione della Chiesa per capire come essa sia stata dentro e determinante alla nascita del Fascismo.
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