Tutto l’immenso edificio della fede cristiana, nelle sue innumerevoli articolazioni della dogmatica, della catechesi, della pastorale, della liturgia, è il prodotto di varie differenti prospettive che il credente ha dell’agire divino. Dio, cioè, nei suoi rapporti con l’uomo, viene visto di volta in volta, secondo le esigenze dell’esegesi e dell’apologetica, secondo angolazioni diverse, che ne mettono in luce determinati aspetti lasciandone in ombra altri.
Ciò sarebbe del tutto normale se le diverse prospettive non fossero tra loro incompatibili, tali cioè da escludersi a vicenda. Il che significa che a Dio si attribuiscono atteggiamenti ciascuno dei quali può spiegare e giustificare il suo operato in determinate circostanze, ma lo rende incomprensibile e ingiustificabile in altre.
È quindi come se Dio agisse nei confronti dell’uomo secondo logiche diverse, tra loro – come si è detto – incompatibili.
Mi sembra che sia sufficiente per chiarire il problema concentrare l’attenzione su tre di queste logiche contrastanti:
1) la logica del padre, ovvero logica dell’amore: Dio è un padre amoroso che crea gli uomini per renderli partecipi della sua gloria e della sua beatitudine. Dopo la loro trasgressione sacrifica il proprio figlio unigenito per redimerli, perché vuole che tutti si salvino, amandoli d’un amore che non si esita a definire “folle”;
2) la logica della prova: Dio subordina l’accoglimento di ciascuna anima nella dimensione beatifica al superamento di una prova. Come già avvenne per gli angeli, anche gli uomini devono “guadagnarsi” il paradiso: la loro redenzione avviene per i meriti infiniti di Cristo, ma essi devono fornire il “simbolico” contributo dei famosi cinque pani e due pesci. La vita terrena è per definizione “il tempo della prova”;
3) la logica del nascondimento: Dio si rivela agli uomini, ma nel “ri-velarsi” si “vela”, si nasconde, lasciando “abbastanza luce per credere ma abbastanza ombra per dubitare o negare”. Ciò perché, se la rivelazione fosse piena ed aperta, l’uomo ne resterebbe abbagliato e non potrebbe dare il proprio libero assenso di fede, cosicché il credere non sarebbe meritorio.
È facile dimostrare che queste tre diverse logiche sono a due a due incompatibili:
- la logica del padre è incompatibile con la logica della prova: nessun padre mette al mondo dei figli per sottoporli a una prova, fallendo la quale - si badi - non solo perderanno il diritto all’eredità paterna, ma saranno orribilmente tormentati vita natural durante.
Questo non è un creare per amore: la logica della prova ha una sua coerenza ineccepibile, ma in contesti (quello della scuola o del lavoro, ad esempio) del tutto diversi da quello dell’amore paterno, un amore che per di più si pretende essere sconfinato;
- la logica del padre è incompatibile con la logica del nascondimento: nessun padre si rivela “a metà”, enigmaticamente. Alla base del rapporto d’amore e di fiducia del figlio nei confronti del padre sta ovviamente la certezza della sua esistenza: sarebbe assurdo che su ciò il figlio dovesse “scommettere”, come – sulla scia di Pascal - qualcuno pretende debba fare il credente nei confronti di Dio. Il primo, fondamentale atto d’amore verso chi si ama è farsi conoscere.
S’intende che qui non è in gioco la conoscenza dell’essenza divina, preclusa alla creatura su questa terra, ma solo la certezza dell’esistenza di Dio, certezza che Dio stesso potrebbe fornire in mille modi, senza costringere l’uomo a passare attraverso le forche caudine della fede, mediante la cosiddetta “fatica del cuore”.
Tra l’altro, è aberrante che un padre si riveli solo ad alcuni figli ordinando loro di informare tutti gli altri (in ciò consiste l’azione missionaria della Chiesa) della loro vera paternità. Col risultato che un numero sterminato di questi figli sono morti, muoiono tuttora e moriranno per secoli e secoli credendosi figli di un altro padre o addirittura di padre ignoto;
- la logica della prova è incompatibile con la logica del nascondimento: quando si sottopone qualcuno a una prova il cui esito sarà decisivo per la sua esistenza, occorre fornirgli gli elementi per un’informazione chiara e completa su tutto ciò che concerne la prova.
A livello teologico, ciò significa che per il superamento della prova dovrebbero essere decisive le opere: la fede non dovrebbe essere, come invece è, condizione necessaria (talvolta addirittura sufficiente!) per la salvezza dell’anima. La “scommessa” sull’esistenza di Dio non dovrebbe giocare alcun ruolo. “Va, la tua fede ti ha salvato” ci porta completamente fuori dalla logica della prova.
Le contraddizioni insite in questi punti fondamentali del nucleo della fede cristiana sono all’origine di una miriade di altre contraddizioni che costellano la compagine dell’esegesi tradizionale e del tessuto dogmatico.
In molti casi la contraddizione rimane nascosta perché il Magistero non ha preso posizione sulla tematica che scotta, lasciando le cose nel vago; in altri l’apologetica salta disinvoltamente da una logica all’altra, sperando che il fedele colto dal dubbio non si accorga del trucco.
Ma vale in sostanza quel che vale per i sistemi assiomatici in logica e in matematica: quando in uno di tali sistemi è presente una coppia di assiomi tra loro incompatibili, è possibile, valendosi del sistema, dimostrare la verità di qualunque enunciato, quindi anche di due proposizioni contraddittorie. Circostanza di cui l’apologetica cristiana usa ed abusa.
Nel campo d’indagine proprio di questa monografia, ossia l’esame delle condizioni per accedere alla beatitudine eterna, un posto di rilievo compete ovviamente agli argomenti della logica della prova.
Ma il discorso che qui si farà e le contraddizioni che si metteranno a nudo valgono, mutatis mutandis, per tutto il complesso del cosiddetto “deposito della fede”.
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