lunedì 5 settembre 2011

TUTTI I MISTERI DELL’ ATTENTATO AL PAPA


La copertina del libroProponiamo il capitolo conclusivo da "Attentato al papa" di Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, da oggi in libreria per Chiarelettere.
Collegamenti innegabili.
Esaminando nel dettaglio questa complessa vicenda che abbraccia oltre due decenni abbiamo visto come molti tasselli si inseriscono nel disegno complessivo. «Non ho dubbi» sostiene Imposimato. «Al di là dell’esito dei processi, c’è un collegamento indiscutibile tra il progetto di assassinare Lech Walesa, l’attentato al papa e il caso Orlandi. Nelle tre vicende ritroviamo i servizi segreti dell’Est e i Lupi grigi usati come schermo, e il papa come obiettivo da colpire. La strage delle guardie svizzere – servita a occultare l’ eliminazione della spia che sapeva troppo, Alois Estermann – è l’approdo finale di una trama che si è dipanata per almeno vent’anni: dall’ elezione di Wojtyla al soglio pontificio fino al volgere degli anni Novanta. Questa convinzione trae forza da una mole di elementi: atti processuali, documenti dei servizi dell’Est, colloqui da me avuti a Berlino con il cervello della Stasi Markus Wolf e il suo luogotenente Gunther Bohnsack, integrati con ricerche del passato.[1]
«Ho cercato di rispettare il limite della verità storica dei fatti. E pur osservando una doverosa prudenza, ho evitato di pretendere prove matematiche, assolute e granitiche per dimostrare anche uno solo di quei fatti.
 La verità storica non può essere condizionata dall’esito delle sentenze, altrimenti la Storia non potrebbe mai essere ricostruita. I fatti valutati nel loro insieme hanno portato, se non alla certezza assoluta, a una verità molto probabile, fondata su un unico disegno terroristico che si è protratto nel tempo. Una verità che consente di fare giustizia di ipotesi fantasiose. E di guardare oltre depistaggi, silenzi e omertà usati spesso per coprire una presunta ragion di Stato, in nome della quale si finisce per fare ricorso anche a mezzi illegali. La legalità del fine – è bene sottolinearlo – non giustifica mai queste scorciatoie.»
Servizi segreti manovrati.
C’è una sorpresa nel lavoro di ricostruzione e di analisi contenuto in questo libro: la scoperta del coinvolgimento dei servizi segreti italiani, specie di quelli militari nell’azione di depistaggio. In effetti non bisogna dimenticare che il Sismi, fin dalle prime ore successive all’attentato a Giovanni Paolo II, lancia un messaggio mediatico deviante: Agca ha agito da solo. Gli stessi servizi segreti nazionali, durante il processo, si prestano al gioco di far credere di essere stati loro a indirizzare Agca sulla pista dell’Est, mentre è lui stesso a parlare fin da subito della pista bulgara e a svelare la sua permanenza a Sofia. Lo fa a partire dal 13 maggio 1981, cioè fin dai suoi primissimi colloqui con gli inquirenti, ben prima di qualsiasi intervento del Sismi.
«Fa impressione dover notare – prosegue Imposimato – che anche in questa vicenda i servizi segreti italiani abbiano remato contro il lavoro della giustizia. Alcune fondamentali occasioni di afferrare la verità sono state vanificate proprio dagli uomini del Sismi, dislocati a Vienna e a Sofia, su indicazione del centro romano. A cominciare dalla misteriosa sparizione, nella capitale austriaca, di un teste chiave come il turco Cihat Turkoglu, il custode delle armi del delitto. C’è poi la vergognosa operazione che porta all’arresto della coppia di turisti italiani Farsetti-Trevisin, ordita dai bulgari con l’assenso dell’intelligence italiana allo scopo di chiedere uno scambio con l’unico bulgaro incappato nella rete della magistratura romana: Sergej Ivanov Antonov, il caposcalo della Balkan Air.
Ma c’è un aspetto ancor più grave: i servizi militari, che pure nel 1983 sapevano della missione dei due agenti bulgari Jordan Ormankov e Stefan Markov Petkov, non hanno mai avvertito il giudice Ilario Martella delle minacce che Agca aveva ricevuto nel carcere di Rebibbia. Ciò agevola non solo la distruzione del processo alla pista bulgara da parte di Agca, ma favorisce anche il rapimento di Mirella e di Emanuela, a cui credo fermamente che i due falsi giudici bulgari non siano stati estranei. Inoltre, il Sismi sa perfettamente – lo dice il coraggioso agente Paolo Dinucci, costretto a lasciare il servizio per non essersi prestato al gioco – che Petkov e Ormankov sarebbero andati a minacciare Ali Agca a Rebibbia. Non ho dubbi che Petkov dica la verità quando, approfittando dell’assenza di Martella, si rivolge ad Agca in turco e lo mette in allarme, avvertendolo che il Kgb ha rapito Emanuela per la sua liberazione.
E così Agca ritratta. Anche la corte d’Assise di Roma riconosce un legame tra il sequestro e la ritrattazione di Agca il 28 giugno 1983. Ed è un errore dedurre, dal diluvio di “lucide farneticazioni” di Agca dopo quella data, che egli abbia detto sempre e solo bugie. Dal 1° maggio 1982 al 28 giugno 1983 Agca ha riferito sempre circostanze precise e inoppugnabili, tra cui l’arrivo a Roma di un Tir bulgaro che avrebbe dovuto portarlo al sicuro assieme a Celik; ha descritto perfettamente le abitazioni di Antonov e Ayvazov e anche il tipo e il colore delle loro auto, le caratteristiche fisiche dei diplomatici bulgari, le loro abitudini, perfino i loro telefoni riservati. Non è un caso che i due falsi giudici si erano convinti che ormai le prove contro Antonov fossero così schiaccianti da cercare di convincerlo a confessare di aver partecipato di sua iniziativa all’attentato al papa assieme ad Agca.»
D’altronde va sottolineato che, se dell’attentato al papa era informato lo Sdece, il servizio segreto francese – che avvertì immediatamente le gerarchie vaticane – come poteva il Sismi non saperne nulla, tenuto conto degli stretti legami del cardinale Casaroli con il generale Santovito, mediati dall’ex religioso e novella spia Francesco Palaia? Non basta. I servizi segreti militari italiani hanno sempre saputo delle odiose minacce dei bulgari a Martella, che coinvolgevano perfino la sua nipotina. Eppure non hanno mai mosso un dito.
«Se il Sismi avesse agito nel pieno rispetto della Costituzione, a difesa dei giudici – afferma Imposimato – la condanna dei bulgari sarebbe stata certa e sarebbe stato possibile anche evitare i sequestri Gregori e Orlandi. Invece il Sismi, a conoscenza del ruolo dei servizi segreti sovietici nell’attentato al papa, fa credere che i due documenti sulla partecipazione dei sovietici all’attentato, trovati nell’agosto 1984 dal pm Domenico Sica nell’abitazione dell’agente Francesco Palaia, siano stati fraudolentemente costruiti proprio per incolpare il Kgb e il Gru. Senonché tali documenti non furono mai usati a quel fine.
«Ma perché il Sismi, un servizio segreto che apparteneva alla sfera occidentale, ha sabotato con tanto accanimento la pista bulgara? Quale interesse aveva? È difficile rispondere. A mio avviso, a guidarli in tal senso sono stati uomini del governo italiano, in nome della linea sempre seguita: destabilizzare l’ordine pubblico per rafforzare il potere politico. In questa direzione agì il solito Giulio Andreotti. Che, forse per non compromettere il dialogo Est-Ovest, assai delicato in quegli anni – mentre il Pci, il più grande partito comunista d’Occidente, cercava di sottrarsi all’egemonia di Mosca – si schierò a difesa dei bulgari. E rassicurò personalmente l’ambasciatore bulgaro a Roma. Andreotti ha detto in commissione Mitrokhin: “È normale che, quando vi sono controversie con cittadini di un altro paese, si cerchi di non farle debordare in conseguenze di carattere politico”. No, mi dispiace, onorevole Andreotti! Tutto questo non è normale.»
La vicenda Walesa
Il progetto di uccidere Lech Walesa viene considerato da Martella come una calunnia di Agca verso i diplomatici bulgari Antonov, Ayvazov e Vassilev. Questa scelta sarà il preludio alla distruzione del processo sulla pista bulgara.
«La vicenda – spiega Imposimato – emerge in modo limpido e veritiero dal racconto di Luigi Scricciolo, che fu il primo a dichiarare che Ivan Tomov Dontchev era interessato a sapere tutto sulla permanenza di Walesa a Roma, sui luoghi di soggiorno, sui programmi, sugli itinerari. Scricciolo, con molta coerenza, rifiutò di dargli la pur minima notizia. Il che trova un formidabile riscontro nella dichiarazione di Ali Agca: questi si lamentava con Antonov, Vassilev e con lo stesso Dontchev per il fatto che l’attentato veniva continuamente rinviato. Alla fine i diplomatici bulgari rinunciarono poiché i sindacalisti italiani non fornivano notizie precise su Walesa. Si tratta di una circostanza che rende credibili le due versioni, per la semplice ragione che Agca e Scricciolo non si sono mai conosciuti e, neppure in ipotesi, possono avere concordato una storia così precisa e combaciante.»
Il caso Orlandi-Gregori
«Anche per i sequestri Gregori e Orlandi – sostiene Imposimato – le prove raccolte in questi ventotto anni dimostrano la serietà della pista dell’Est e l’assurdità di qualunque altra ipotesi. I due rapimenti furono la continuazione dell’attacco a Giovanni Paolo II che, peraltro, di ciò si convinse nel settembre 1997, quando lesse la lettera di Agca che io stesso ebbi la premura di fargli avere. Sia nell’attentato al papa sia nei sequestri – soprattutto in quello della Orlandi – si vede con chiarezza la stessa mano che si propone di fermare il papa. In entrambi gli eventi, il Kgb e i servizi bulgari sono presenti accanto alla Stasi.»
Se si escludono i primi contatti, il cui fine è quello di far credere all’ipotesi della fuga volontaria, le telefonate ricattatorie giungono solo al papa e a Casaroli, mai agli Orlandi. Emanuela viene rapita in coincidenza con il secondo viaggio di Giovanni Paolo II in Polonia, dal 16 al 23 giugno 1983, un viaggio fortemente voluto dal pontefice fin dall’indomani dell’attentato, nonostante l’opposizione di Mosca. Il papa, al ritorno dalla sua visita, tace sui suoi personali trionfi polacchi e, nei suoi messaggi da San Pietro, parla solo di Emanuela e della sua famiglia.
È certo che gli attacchi dei terroristi gli giungono anche per telefono, ma nessuno ha mai potuto registrare quei colloqui.
I messaggi anonimi diffusi a partire dal luglio 1983 contengono dati precisi su Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, che provano il contatto degli autori con le due ragazze. [2]
«La mia convinzione che esistesse una strategia globale contro il papa – prosegue Imposimato – nacque quando presi in esame il caso Orlandi. Nonostante le evidenti connessioni (identico l’obiettivo, identici i luoghi dei due delitti) mi chiesi la ragione del distacco temporale di oltre due anni tra l’attentato e il sequestro. Distacco che renderebbe improbabile un collegamento e darebbe ragione al giudice Adele Rando, che nella sentenza si mostra scettica persino sulla plausibilità del sequestro. Pensai allora che la scomparsa di Emanuela fosse stata preceduta da una lunga preparazione o da altri tentativi analoghi verso altri bersagli. Che però non risultavano dal testo delle sentenze Rando e Priore, condotte con impegno dai due magistrati romani. Non mi restò allora che tornare a leggere le carte, tutte le carte, che spesso dicono di più, molto di più, delle sentenze. E decisi di fare una ricerca “archeologica” di documenti sepolti, con l’aiuto del capo dei gip di Roma Antonino Stipo, il quale mi aiutò a reperire gli atti. Fu un lavoro certosino che mi consentì di scoprire alcuni rapporti dei carabinieri che risalivano al 1984 e che erano stati completamente ignorati. Documenti fondamentali per la verità, dai quali emerge un vasto e preciso piano di rapimenti di cittadini vaticani appartenenti a famiglie molto legate al papa. Avevo intuito bene, perché quelle carte – rapporti, ma anche interrogatori condotti dai carabinieri – dimostravano che prima di Emanuela altre ragazze erano entrate nel mirino dei terroristi. Una addirittura fin dal maggio 1981, subito dopo l’attentato. Scoprii anche, a conferma della mia intuizione, che Agca aveva anticipato al giudice Martella, ancor prima della scomparsa di Emanuela, il programmato rapimento di cittadini vaticani per ottenere uno scambio con lui. Quindi la povera Emanuela è stata un obiettivo di ripiego.
«Per me – aggiunge Imposimato – è sempre stato chiaro che quel progetto era stato preparato a lungo. A illuminarmi fu un coraggioso giornalista tedesco che lavorava in Vaticano. Fu lui a suggerirmi che il basista del sequestro fosse stato, probabilmente, il monaco benedettino Eugen Brammertz amico di Casaroli. Credo che De Pedis non abbia nulla a che vedere con Emanuela Orlandi. A meno di voler credere che egli disponesse di una rete di agenti dell’Est in Vaticano.»
I sopralluoghi in Vaticano
Ercole Orlandi, in preda a un’angoscia senza fine e a una solitudine dolente, abbandonato da chi aveva il dovere morale di aiutarlo, a più riprese espresse a Imposimato i suoi tanti dubbi sull’esistenza di spie all’interno del Vaticano. E gli consegnò un elenco di guardie svizzere tra cui avrebbe potuto esserci un traditore. Il papà di Emanuela era rimasto colpito dal fatto che i rapitori sapessero in tempo reale ciò che accadeva in Vaticano. E segnalò una serie di luoghi dove erano probabilmente cominciati l’avvistamento e il pedinamento delle vittime designate: le sorelle Gugel, le sorelle Orlandi, la figlia e la moglie di Cibin, che gravitavano tutte sugli stessi luoghi e percorrevano gli stessi itinerari, rigorosamente controllati da agenti del Kgb e della Stasi. Da una finestra de “L’Osservatore Romano” il giornalista-spia Brammertz avvista gli ostaggi. La guardia svizzera-spia Estermann, che spesso sosta al varco di Sant’Anna, incrocia quasi ogni giorno le sorelle Gugel ed Emanuela. I due falsi giudici sono a Roma all’ambasciata bulgara tra il 20 e il 24 giugno 1983, ossia prima, durante e dopo il sequestro. Ecco perché Petkov rivela ad Agca, nell’ottobre del 1983, che Emanuela è stata rapita dal Kgb: egli è stato uno degli organizzatori del piano. Estermann sa tutto quello che accade e conserva documenti che anni dopo gli saranno trafugati, decretando la sua morte prima che abbia il tempo di lasciare il Vaticano.
I moventi improbabili
Sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori sono state fatte anche altre ipotesi: fuga per insoddisfazione, fuga d’amore, tratta della bianche, sequestro a scopo di lucro o di ricatto alle gerarchie vaticane. «Ciascuno di questi scenari – sostiene Imposimato – non regge a un esame dell’insieme delle prove e al normale buon senso. Che non si sia trattato di un sequestro per fini di lucro fu subito chiaro al pontefice. I rapitori non chiesero mai denaro, anzi, rifiutarono l’offerta di due miliardi di vecchie lire avanzata da amici degli Orlandi. Fin dall’inizio si dimostrarono interessati solo alla figura di Agca. E nei messaggi, preparati a Berlino Est dalla Stasi, dai bulgari e dai russi, come mi rivelò Bohnsack, vennero lanciate terribili e ripetute minacce al papa, al Vaticano, ai pubblici ministeri e ai giudici impegnati nella ricerca. Forse quelle minacce influirono sul giudice Martella, che indagava con il pm Albano, e io stesso fui costretto a lasciare il tribunale di Roma a causa dell’assassinio di mio fratello.»
C’è poi da chiedersi quale fu la posizione di Casaroli in quelle complesse vicende. Intanto è significativo che egli non parli né dell’attentato al papa né del caso Orlandi nelle sue memorie. Quattro anni cancellati completamente. Perché?
«Io credo – spiega Imposimato – per l’imbarazzo di fornire un resoconto inesatto. Egli deplorava il presenzialismo del papa e la sua sfida a Mosca. Casaroli era schierato a favore dei paesi socialisti. E non a caso dal 5 luglio 1983 i rapitori si misero in contatto con il numero da lui fornito per fare richieste contro il papa. I suoi amici Stehle e Brammertz tennero costantemente informata la Stasi, e Casaroli non poteva non saperlo. Le notizie fornite dai due, infatti, erano troppo precise. Inoltre, come poté non insospettirsi del fatto che i rapitori venissero a sapere quasi in tempo reale dei suoi contatti con il pm Domenico Sica? Casaroli negò anche di essere stato informato del progetto di attacco al papa, ma fu smentito dagli uomini del servizio segreto francese. Molti – come scrisse don Virgilio Levi su “L’Osservatore Romano” il giorno dopo l’attentato – sapevano che era imminente. Ma non fu soltanto Casaroli a informare i servizi dell’Est. Un’attenzione particolare merita il segretario del papa, don Stanislaw Dziwisz, legato al padre domenicano Konrad Hejmo, spia polacca al servizio dell’Sb. Secondo Adam Boniewski, Hejmo e Dziwisz erano “la stessa cosa”. E dunque il braccio destro del papa era una sospetta spia del servizio segreto polacco.»
La posizione di Benedetto XVI
Ma quale è stata in anni recenti la posizione di Benedetto XVI sulla vicenda Orlandi? Risponde Imposimato: «Quella del silenzio. L’atteggiamento del Vaticano ha creato molta amarezza alla famiglia. La posizione di papa Ratzinger e della Segreteria di Stato – mi duole doverlo dire – è sempre stata di totale chiusura rispetto all’evidenza che Emanuela sia stata vittima di un attacco al papa. Fatte le debite proporzioni, penso a Galilei: forse fra trecento anni il Vaticano riconoscerà i suoi errori in questa vicenda. Ma anche Giovanni Paolo II a un certo punto abbandonò gli Orlandi. Non diede mai alcuna risposta alla lettera che la famiglia gli scrisse nel 1999. Eppure Wojtyla aveva dato la sua piena solidarietà ai genitori e ai fratelli di Emanuela, rivolgendo ben otto appelli ai rapitori. Il pontefice aveva compreso che Emanuela era scomparsa non per scelta volontaria, ma – come aveva confidato alla mamma e al papà della ragazza – per un “atto di terrorismo internazionale”, e aveva supplicato i responsabili del sequestro di liberarla.
«In una lettera indirizzata in tempi recenti a Benedetto XVI,3 la famiglia ha ribadito la matrice terroristica del sequestro e ha chiesto al papa di rivolgere un appello agli Stati coinvolti nella vicenda – Turchia, Germania, Francia, Polonia, Russia e Bulgaria – per invitarli a collaborare con la giustizia italiana. A conclusione di quella lettera rimasta senza risposta, si auspicava che Emanuela, in ossequio alla verità, venisse finalmente considerata, come pensava papa Wojtyla, una vittima del terrorismo contro il Vaticano. E invece la risposta è stata solo il silenzio».
L’epilogo, diciassette anni dopo
Appare incredibile che una vicenda cominciata nel 1981 con gli spari in piazza San Pietro e proseguita due anni dopo con il sequestro di due giovani donne abbia dovuto attendere il 1998 per potersi considerare conclusa. Eppure il triplice delitto del comandante della guardia svizzera Alois Estermann, di sua moglie e del vicecaporale dello stesso corpo, Cédric Tornay, è proprio l’atto finale di una tragedia durata diciassette anni.
«Il furto di documenti dall’ufficio di Estermann perpetrato da ignoti nel 1997 – afferma Imposimato – prova che Estermann era controllato da vicino da qualcuno che ormai non si fidava più di lui. E dimostra che il comandante era in grado di ricattare i membri della rete interna al Vaticano, coinvolti sia nell’attentato sia nel sequestro. Estermann si sentiva minacciato e aveva intenzione di servirsi di quei documenti molto riservati. Ma anche dopo il furto era rimasto depositario di tremendi segreti. E quindi era pericoloso. Conosceva i fatti e aveva intenzione di usarli quanto meno come assicurazione sulla vita, e magari anche come salvacondotto per una fuga lontano dai torbidi ambienti del Vaticano, come dimostra l’incontro di «Werder» con Arconte. Il povero Cédric Tornay fu solo la vittima sacrificale di un disegno che doveva, per forza di cose, portare all’eliminazione di Estermann. E questo spiega l’assoluto riserbo del Vaticano, le sue troppe menzogne e l’inspiegabile scelta di non chiedere aiuto alla magistratura italiana. Solo scovando i ladri si conosceranno anche gli assassini.»
Un’atroce domanda senza risposta
Una domanda continua ad aleggiare sull’intera vicenda, lasciando la famiglia in uno stato di atroce sospensione: Emanuela è viva? Secondo Imposimato, «dalla lettura degli atti risulta che Emanuela è stata tenuta in vita almeno fino al 1997. I segnali in tal senso sono molteplici e si basano su diverse testimonianze. Non è possibile che Emanuela sia stata uccisa subito dopo il rapimento: la voce registrata a distanza di mesi lo dimostra. E poi c’è la testimonianza della professoressa Baum, che nell’agosto 1983 parlò con lei. Inoltre ci sono le testimonianze di diverse persone dell’ambiente turco che vivono da anni in Germania. Dopo essere stata rapita dai Lupi grigi su incarico dei bulgari, Emanuela non è stata uccisa. Certamente ha convissuto con qualcuno dei suoi rapitori. Sulla base della mia esperienza, non è la prima volta che ciò accade. E non deve stupire. Che sia ancora viva non è possibile dirlo. Io penso e mi auguro che sia così.»
NOTE
[1] Per esempio le ricerche di cui si dà conto nel libro di F. Imposimato, Vaticano. Un affare di Stato cit.
[2] Il 3 ottobre 1997 il pubblico ministero Giovanni Malerba conclude che non è possibile procedere poiché gli autori dei sequestri Orlandi e Gregori sono rimasti ignoti. Tuttavia afferma che «sul fronte del sequestro a fini politico-terroristici, l’inchiesta ha preso le mosse dai plurimi messaggi fonici, telefonici e scritti, indicanti il movente del sequestro Orlandi e anche del sequestro Gregori, nell’acquisizione di ostaggi […] la cui liberazione fosse condizionata alla scarcerazione del detenuto Mehmet Ali Agca, responsabile dell’attentato al pontefice del maggio
1981. […] Alcuni di tali messaggi […] evidenziano rilevanti connotazioni di autenticità e genuinità, in quanto accompagnati da prove foniche o documentali riferibili a Emanuela Orlandi e a Mirella Gregori». Lo stesso Malerba sottolinea «l’esistenza, al di là della diversità delle sigle, di una stretta connessione tra il caso Gregori e il caso Orlandi». E rileva ancora che chi «invia i messaggi scritti o verbali ha la disponibilità delle ragazze» (cfr. Requisitoria del pm Giovanni Malerba, 3 ottobre 1997).
[3] Nella lettera a papa Benedetto XVI, la famiglia di Emanuela Orlandi propone una dettagliata e articolata ricostruzione dello scenario in cui va collocata la scomparsa della loro congiunta e ribadisce la matrice terroristica del sequestro. La loro speranza è quella «di conoscere quale sia la sorte di Emanuela, non rassegnandosi mai all’idea che su quella storia cada il silenzio e che la verità, in parte già accertata nonostante gli ostacoli di ogni genere, non venga alla luce». La famiglia «si attende da Sua Santità una testimonianza di solidarietà per il suo sacrificio in nome della libertà» e chiede di non «essere più lasciata sola a occuparsi di una vicenda complessa e transnazionale; una vicenda in cui si inseriscono, ancora oggi, avvoltoi senza scrupoli per fare strame della verità e della dignità di Emanuela per fini ignobili». A conclusione della missiva, la famiglia chiede che Emanuela sia riconosciuta «come una vittima del terrorismo contro il Vaticano e contro la sua famiglia. Si tratta di un riconoscimento di altissimo valore simbolico che sarebbe di aiuto morale per la famiglia, il cui bisogno di verità e di giustizia è rimasto intatto nel corso di questi ventotto anni».

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